Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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giovedì 17 maggio 2018

Francesco de’ Rossi, detto Francesco Salviati: l’ancona “Annunciazione” nella Chiesa di S. Francesco a Ripa Grande


Francesco de’ Rossi (1509, circa – 1563) nasce a Firenze e sin dalla giovanissima età è introdotto da suo zio orafo, Dionigi da Diacceto, nel relativo ambiente artistico, dove conosce Giorgio Vasari con il quale stringe inossidabile amicizia e, successivamente al percorso formativo avvenuto sotto la “direzione” di Baccio Bandinelli (1526 -1527), approda alla bottega di Andrea del Sarto (1529, circa). Dal 1531 al 1539 affronta il suo primo soggiorno romano - quasi subito seguito dal Vasari - presso il cardinale Giovanni Salviati di cui fa proprio il nome di famiglia (sarà chiamato altresì Cecchino del Salviati). Il porporato dispone che il giovane pittore “in Borgo Vecchio avesse le stanze, et quattro scudi il mese et il piatto alla tavola de’ gentiluomini”, come scriverà il medesimo Vasari nelle “Vite dei più eccellenti pittori, scultori et architetti italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri”, che, in un altro passo del capitolo dedicato al Salviati, ne evidenzia l’impegnativa attività condotta in sua compagnia, volta a disegnare opere artistiche, sia antiche e sia a essi contemporanee, presenti nella Città Eterna: “ … ambidue di compagnia con molto profitto alle cose d’arte, non lasciando né in palazzo, né in altra parte di Roma, cosa alcuna notabile la quale non disegnassono.” Una lettura dunque che indaga soprattutto Michelangelo e Raffaello.

La sua cifra inizia così a svilupparsi in modo brillante, assumendo in sé antiche lezioni che trasforma, inizialmente, in versi interpretativi accademici non disgiunti però da un’oggettiva abilità pittorica e quest’ultima raggiunge il vertice nella Visitazione (1538) affresco eseguito nell’Oratorio di S. Giovanni Decollato, ambiente attiguo all’omonima Chiesa.

Tale notevole opera è preceduta da un’altra gemma dipinta dal “nostro” pittore, vale a dire l’olio su tavola, Annunciazione (1534/1535), troneggiante sull’altare della terza cappella di sinistra, che conferma le pregevolezze plastiche e architettoniche della Chiesa di S. Francesco a Ripa Grande. Basti rammentare, ad esempio, il monumento funebre della Beata Ludovica Albertoni del Bernini, o la pala S. Anna, la Vergine e il Bambino del Gaulli detto il Baciccia (o Baciccio), o ancora l’impianto edificatorio della Cappella del SS. Crocifisso attribuita a Carlo Fontana. Giorgio Vasari, a questo riguardo, asserisce che Francesco Salviati: “ … fece per la Chiesa di S. Francesco a Ripa una bellissima tavola … d’una Nunziata, che fu condotta con grandissima diligenza”.           

Incomprensibilmente l’identità del suo autore, nel corso dei secoli, cade nell’oblio benché, come si è letto, il Vasari citi il lavoro nelle sue “Vite”; solo intorno al 1951il dipinto è correlato al nome del pittore fiorentino.

Immune da un’ostentata affabulazione imitativa michelangiolesca, il quadro del tempio trasteverino percorre una “maniera” armonica, ben espressa che estrinseca un incipiente innovativo esito, come dimostra l’assetto di quanto vi è raffigurato. 

Un’ampia visione caratterizza l’insieme pittorico che comprende, nell’estremo piano sinistro un lieve affievolire di tinte turchine, mentre una monumentale struttura architettonica imprime equilibrata solennità allo sfondo. Pacata quindi appare la distribuzione compositiva seppur esplicitata con tratti estesi, sui quali appaiono morbide eleganti figure avvolte da una classica nobiltà.

Infatti, la figura dell’angelo mostra una tondezza del volto, enfatizzata dal capace mento, dal pieno collo in “posa allungata” e dalle gote dolcemente pronunciate, che accompagnano le lievi labbra quasi impercettibilmente schiuse. Il mosso panneggio è definito da timbri più marcati che non contrastano la sofficità dell’azione, i metallici azzurri semmai ampliano le pieghe delle vesti, come se quel tenue dialogo, dei due personaggi (la figura angelica e la Vergine), si rivestisse maggiormente di soavità, confermata dai leggeri rossi tessuti. Il colore sensibilmente condotto diviene rosa sulle ali dell’angelo sino quasi spegnersi in un soffuso marrone, bagliori che mutano aspetto ma da cui non sgorgano enfatici sussulti.

Il rosato pavimento striato di sereno grigio sembra svolgersi, con sapiente uso prospettico, in sezioni un poco oblique, donando profondità all’organizzazione visiva dell’ancona. Su di esso sporge “l’antico” sia nella visibile timida ombra che definisce le colonne, sia, in modo più netto, nell’intagliato leggio, echeggiando in lontananza sulla sinistra nel paesaggio di ruderi, dove una pura composita atmosfera di azzurri, di bianchi e di rosa avviluppano, con la loro certa trasparenza, ogni elemento.

Dio Padre, su una candida piena e ondosa nube, manifesta la Sua presenza con il teso braccio sinistro, quasi un’energica benedizione, priva di rigida solennità, tra un cangiante cromatico atto, che introduce la colomba sospesa in una sorta di docile volo.

Il viso della Vergine possiede un’espressione di reale purezza che non comprende una sterile concretezza formale; il Suo atteggiamento di colma grazia accoglie l’intervento divino, sottolineato dal grembo già lievemente gonfio, mentre il Suo sguardo di nobile consapevolezza è assorto, evidenziato dal sereno movimento reclino del capo, dalla bianchezza della pelle e dal gesto della mano sinistra, su cui una timida ombra lambisce parzialmente il mite palmo aperto.