Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

Io Spiego

venerdì 13 febbraio 2015

Le tele “romane” del Guercino esposte nella mostra “da Guercino a Caravaggio”, Palazzo Barberini

 
 

 
Domenica 15 febbraio terminerà la rassegna –prorogata di una settimana- che celebra un aspetto del Barocco, attraverso l’opera del britannico Denis Mahon, famoso storico dell’arte nonché collezionista. Egli studia, per oltre settant’anni, il suo artista prediletto: Govanni Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666). Acceso sostenitore della stagione barocca e della pittura italiana del Seicento, s'interessa intensamente pure di altri autori tra i quali Caravaggio, Annibale e Ludovico Caracci, Nicolas Poussin, quest'ultimo affermatosi nell'ambiente artistico romano.

Questo post deriva da un mio studio sul Casino “dell’Aurora” Boncompagni Ludovisi, ove al suo interno si apre la Sala dell'Aurora, nella quale risalta il celebre affresco a tempera del Guercino (con la collaborazione di Agostino Tassi), raffigurante “Aurora che avanza su un carro spargendo fiori”, testimonianza della sua felice deflagrazione luministica pittorica. Anche l’esperienza romana (1621-1623) del Barbieri, nato a Cento -nel ferrarese-, esprime la pittura degli affetti –che non scade in un accademico sentimentalismo-, con la quale il nitore delle scene o il “lume” dei personaggi ha fondamento nella suprema idea di bellezza. La sua entità artistica è magnificata dall’enfasi della sostanza pittorica, materia avvertita come colma di luce, viva nella propria morbida espressività, in un costante contrapporsi di toni caldi-freddi come lo è “il sentire” che scorre nell’esistenza umana, reso con cifra piena di effetti.
 
A Roma sono conservati alcuni suoi lavori considerati “della maturità artistica” -raffrontatasi con l’ambiente culturale che caratterizza la Città-, in cui culminano quella mobilità del “verso atmosferico”, quella sorta d’impeto che traduce il respiro del sentimento, affiorando, in alcuni dipinti, un naturalismo non disgiunto da un’idealizzazione vibrante di alcune figure. Il suo particolare “macchiato” quasi palpitante, inoltre, vuole aggiungere alla “tessitura” delle opere create –così negli intenti- toni di suggestiva liricità.
 
Le quattro tele prescelte per la descrizione, provenienti da sedi museali romane, sostanziano in buona parte la particolarità stilistica del pittore di Cento.

 
Et in Arcadia Ego
Immagine tratta da "Google Immagini"

Questo dipinto (olio su tela), custodito presso la Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini, è stato eseguito intorno al 1618. Espressione particolare del tema “vanitas”, di distintivo contenuto metaforico e d’immediata crudezza, introduce l’osservatore nell’ineluttabile caducità della condizione umana. La peculiare genesi di questo lavoro, come rilevato da Mahon, ha inizio con l’elaborazione de “Lo scorticamento di Marsia”, opera commissionata da Cosimo II de’Medici, Granduca di Toscana (Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze). Alla drammatica azione dei soggetti principali là raffigurati, il dio Apollo e il satiro Marsia, vi assistono in piano secondario due altri personaggi, due pastori completamente sovrapponibili ai due che appaiono nel quadro conservato a Roma. Plausibile si dimostra, quindi, la tesi enunciata da Mahon stesso, secondo il quale, tale dipinto, ha avuto una prima natura di studio delle due figure di corredo, mutato in un secondo momento, dal Guercino, in una creazione autonoma per mezzo della presenza del teschio e del motto, elementi questi ultimi che sembrano commentare e confermare, come è stato argomentato da studi, la convinta idea espressa dalla tela di Firenze, la quale fissando l’istante immediatamente precedente all’inizio del terribile supplizio, inflitto a Marsia, esplica il concetto dell’inesorabile perdita dell’idillica atmosfera arcadica.
 
Il teschio non è presentato quale “accessorio”, levigato e lucido come se fosse un avorio, dal quale nascono o per il quale si raccolgono meditazioni spirituali o riflessioni filosofiche, argomento così abituale in molti quadri da convertire, il complesso delle ossa della testa, in una sorta di singolare fermacarte. Infatti, in questo caso, il cranio, disegnato bene in vista, rivolgendosi verso lo spettatore con riso macabro e beffardo, trattiene in sé un mestissimo lembo di vita, la cui carne non sembra completamente “disgregata”. In sostanza, rappresenta il sopravvenuto sfasciume del corpo umano assoggettato alla morte, che con il suo miasma attrae vermi, topi, mosconi e così via. Di tale fine mortale l’autore ne pronuncia il gesto sottolineato da quel “macchiato”, quasi che intenda disinteressarsi della compiutezza della forma paesaggistica a favore di un immediato effetto, che pone in rilievo uno sfuggente onirico ambiente, nel quale i profili dei due pastori, invece, sono pienamente raffigurati, mostrando una diversa posa. Invero, uno è sorpreso da quella spettrale scena, l’altro, al contrario, appare preso da profonda mestizia, la quale supera sia il dolore per la perdita, inevitabile, della bellezza terrena e sia lo smarrimento che incute, sull’animo, quella meta finale comune a tutti i viventi –la morte-, come dimostra l’atteggiamento, pensoso e rassegnato, del volto.
 
L’iscrizione incisa sul lato visibile della pietra, su cui posa il teschio, ha spessa valenza “traslata” declamando: “ET IN ARCADIA EGO”. Frase, per come può apparire, dalla struttura ellittica, vale a dire mancante di una parola, che permane sottintesa e identificabile con “sum” (essere, stare, abitare), mentre “et” sembra condurre a “etiam” (anche). Ma il termine omesso potrebbe altresì essere, secondo alcuni, “eram” (ero), coniugazione del verbo essere nell’imperfetto indicativo della prima persona singolare; da queste fondate presupposizioni ne deriva l’interpretazione: “Anch’io sono (o ero) in Arcadia” oppure “Io sono (o ero) anche in Arcadia”. E’ la Morte stessa che dichiara e rammenta, all’umanità, la sua presenza pur nei luoghi più sereni e privi di ansie, esteriormente sospesi in uno spazio temporale di somma –ma temporalmente limitata- felicità.
 
Nell’Arcadia, antica regione storica della Grecia meridionale, sita nel Peloponneso centrale, abitata da pastori, ha origine il culto del dio Pan, divinità delle montagne nonché della vita agreste, spesso associato a Dioniso, accompagnato in molte occasioni dalle ninfe montane. Egli è il protettore degli armenti; molto ama la musica e la danza, le zone boschive e le fresche sorgenti. In origine è effigiato con aspetto spaventosamente ferino, in seguito, però, i suoi caratteri belluini si affievoliscono sino ad assumere un’aria decisamente bonaria. Questo territorio diventa, nei racconti mitologici, idilliaco permettendo ai suoi abitanti –comprese le figure mitiche- di vivere in un’atmosfera incantata, pregna di poesia, lontano dalle tribolazioni degli “altri” uomini. Alla fine del XV secolo la regione è evocata da Jacopo Sannazzaro, che descrive feste e riti pastorali, in una visione che vagheggia una vita altra e, successivamente, l’Arcadia ha ispirato una densa produzione pittorica –e non solo- la quale canta un’utopica età aurea.
 
In questa aulica cornice s’inserisce il quadro “Et in Arcadia Ego” del Guercino -in palese polemica con quell’incantato paesaggio classicista-, autentico “memento mori” già praticato nella pittura ispirata dai e ai canoni della Controriforma in ambientazioni di nature morte. Il tema è ripreso in seguito dal Poussin.
 
 
 
Incredulità di S. Tommaso
 
Immagine tratta da "Google Immagine"
 

Quest’olio su tela, proveniente dalla Pinacoteca dei Musei Vaticani, è stato realizzato intorno al 1621. Ciò che immediatamente si rivela è il movimento delle mani che svelano, che toccano, erompendo da quelle tenebre, vere coltri in cui è impossibile vedere, conoscere, credere. Sono proprio i personaggi fasciati da quelle ombre, le quali si ritirano innanzi al lucente chiaroscuro del Cristo -antinomia avverabile-, magistrale linguaggio dei gesti, che simultaneamente definiscono l’opera quale uno dei vertici dell’artista.
 
Lo scettico S. Tommaso è raffigurato nel momento in cui avanza la sua contrizione, per il suo umanissimo dubbio, evidenziata dalla mano sinistra portata al petto. La scena è colma di figure, di fremente fisicità e di palpiti, sviluppata in un’unica ombrata sostanza di movimenti e di panneggi, che risente del linguaggio del Caravaggio.
 
 
 
Ritratto del Cardinale Bernardino Spada
 
Immagine tratta da "Google Immagini"
 
 
Dipinto conservato presso la Galleria Spada, eseguito a Bologna nel 1631 -quando il Guercino è ospitato dal Cardinale-, composto in un taglio orizzontale, lievemente “obliquo”, che mostra una pianta geometrica a forma di stella a otto punte, la quale allude al progetto della fortezza urbana nei pressi di Castelfranco Emilia, di cui lo Spada quale legato pontificio ne dirige e ne controlla le fasi costruttive, voluta da papa Urbano VIII per difendere il confine nord-ovest dello Stato pontificio, a cui Bologna appartiene.
 
Ritratto commemorativo nel quale il personaggio è raffigurato a distanza ravvicinata, in un contesto indubbiamente ossequioso ma che comunica all’osservatore un senso di compiaciuta affabilità, scandita da quella espressione morbidamente accesa, intensificata dalle sue pupille scure. Questa sembianza quasi intima è accentuata dal fondo buio, con il quale ogni insegna o evocazione della sua preminente dignità ecclesiastica e politica viene rimossa, pur estrinsecandone con leggerezza la padronanza delle facoltà del porporato.
 
 
 
Sibilla Persica
 
Immagine tratta da "Google Immagini"


Dipinto appartenente alla Pinacoteca dei Musei Capitolini, composta nel 1647, caratterizzata da una posa meditativa -che lambisce la malinconia-, della giovane donna, Sibilla Persica” -storicamente la veggente è identificata con quella Caldaica-, la cui testa appoggiata sulla mano sinistra coincide con il realistico disegno del volto, che il ricercato cromatismo delle vesti pone in rilievo con raffinato contrasto. L’insieme pittorico pare reiterare un attimo sospeso, nel quale la “Sibilla” è colta quando sembra distaccarsi dal proprio personaggio, tratteggiando una interruzione scenica che ne svela i caratteri più incisivi, più riposti. La giovane si rivolge a un’intima platea, a un pubblico ideale, al quale offre il suo profondo stato psicologico ed emotivo, manifestando un concetto dialettico ed esplicativo dell’arte pittorica.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 









 


 


 
 

 



 

 

 



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