Domenica
15 febbraio terminerà la rassegna –prorogata di una settimana- che celebra un aspetto
del Barocco, attraverso l’opera del britannico Denis Mahon, famoso storico
dell’arte nonché collezionista. Egli studia, per oltre settant’anni, il suo artista
prediletto: Govanni Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666). Acceso sostenitore della stagione barocca e della pittura italiana del Seicento, s'interessa intensamente pure di altri autori tra i quali Caravaggio, Annibale e Ludovico Caracci, Nicolas Poussin, quest'ultimo affermatosi nell'ambiente artistico romano.
Questo post deriva da un mio studio sul Casino “dell’Aurora” Boncompagni Ludovisi, ove al suo interno si apre la Sala dell'Aurora, nella quale risalta il celebre affresco a tempera del Guercino (con la collaborazione di Agostino Tassi), raffigurante “Aurora che avanza su un carro spargendo fiori”, testimonianza della sua felice deflagrazione luministica pittorica. Anche l’esperienza romana (1621-1623) del Barbieri, nato a Cento -nel ferrarese-, esprime la pittura degli affetti –che non scade in un accademico sentimentalismo-, con la quale il nitore delle scene o il “lume” dei personaggi ha fondamento nella suprema idea di bellezza. La sua entità artistica è magnificata dall’enfasi della sostanza pittorica, materia avvertita come colma di luce, viva nella propria morbida espressività, in un costante contrapporsi di toni caldi-freddi come lo è “il sentire” che scorre nell’esistenza umana, reso con cifra piena di effetti.
Questo post deriva da un mio studio sul Casino “dell’Aurora” Boncompagni Ludovisi, ove al suo interno si apre la Sala dell'Aurora, nella quale risalta il celebre affresco a tempera del Guercino (con la collaborazione di Agostino Tassi), raffigurante “Aurora che avanza su un carro spargendo fiori”, testimonianza della sua felice deflagrazione luministica pittorica. Anche l’esperienza romana (1621-1623) del Barbieri, nato a Cento -nel ferrarese-, esprime la pittura degli affetti –che non scade in un accademico sentimentalismo-, con la quale il nitore delle scene o il “lume” dei personaggi ha fondamento nella suprema idea di bellezza. La sua entità artistica è magnificata dall’enfasi della sostanza pittorica, materia avvertita come colma di luce, viva nella propria morbida espressività, in un costante contrapporsi di toni caldi-freddi come lo è “il sentire” che scorre nell’esistenza umana, reso con cifra piena di effetti.
A
Roma sono conservati alcuni suoi lavori considerati “della maturità artistica” -raffrontatasi
con l’ambiente culturale che caratterizza la Città-, in cui culminano quella
mobilità del “verso atmosferico”, quella sorta d’impeto che traduce il respiro
del sentimento, affiorando, in alcuni dipinti, un naturalismo non disgiunto da
un’idealizzazione vibrante di alcune figure. Il suo particolare “macchiato” quasi
palpitante, inoltre, vuole aggiungere alla “tessitura” delle opere create –così
negli intenti- toni di suggestiva liricità.
Le
quattro tele prescelte per la descrizione, provenienti da sedi museali romane,
sostanziano in buona parte la particolarità stilistica del pittore di Cento.
“Et in
Arcadia Ego”
Immagine tratta da "Google Immagini" |
Questo
dipinto (olio su tela), custodito presso la Galleria Nazionale di Arte Antica
in Palazzo Barberini, è stato eseguito intorno al 1618. Espressione particolare
del tema “vanitas”, di distintivo
contenuto metaforico e d’immediata crudezza, introduce l’osservatore
nell’ineluttabile caducità della condizione umana. La peculiare genesi di
questo lavoro, come rilevato da Mahon, ha inizio con l’elaborazione de “Lo scorticamento di Marsia”, opera
commissionata da Cosimo II de’Medici, Granduca di Toscana (Galleria Palatina,
Palazzo Pitti, Firenze). Alla drammatica azione dei soggetti principali là
raffigurati, il dio Apollo e il satiro Marsia, vi assistono in piano secondario
due altri personaggi, due pastori completamente sovrapponibili ai due che
appaiono nel quadro conservato a Roma. Plausibile si dimostra, quindi, la tesi
enunciata da Mahon stesso, secondo il quale, tale dipinto, ha avuto una prima
natura di studio delle due figure di corredo, mutato in un secondo momento, dal
Guercino, in una creazione autonoma per mezzo della presenza del teschio e del
motto, elementi questi ultimi che sembrano commentare e confermare, come è
stato argomentato da studi, la convinta idea espressa dalla tela di Firenze, la
quale fissando l’istante immediatamente precedente all’inizio del terribile supplizio,
inflitto a Marsia, esplica il concetto dell’inesorabile perdita dell’idillica
atmosfera arcadica.
Il
teschio non è presentato quale “accessorio”, levigato e lucido come se fosse un
avorio, dal quale nascono o per il quale si raccolgono meditazioni spirituali o
riflessioni filosofiche, argomento così abituale in molti quadri da convertire,
il complesso delle ossa della testa, in una sorta di singolare fermacarte.
Infatti, in questo caso, il cranio, disegnato bene in vista, rivolgendosi verso
lo spettatore con riso macabro e beffardo, trattiene in sé un mestissimo lembo
di vita, la cui carne non sembra completamente “disgregata”. In sostanza,
rappresenta il sopravvenuto sfasciume del corpo umano assoggettato alla morte,
che con il suo miasma attrae vermi, topi, mosconi e così via. Di tale fine
mortale l’autore ne pronuncia il gesto sottolineato da quel “macchiato”, quasi che
intenda disinteressarsi della compiutezza della forma paesaggistica a favore di
un immediato effetto, che pone in rilievo uno sfuggente onirico ambiente, nel
quale i profili dei due pastori, invece, sono pienamente raffigurati, mostrando
una diversa posa. Invero, uno è sorpreso da quella spettrale scena, l’altro, al
contrario, appare preso da profonda mestizia, la quale supera sia il dolore per
la perdita, inevitabile, della bellezza terrena e sia lo smarrimento che
incute, sull’animo, quella meta finale comune a tutti i viventi –la morte-,
come dimostra l’atteggiamento, pensoso e rassegnato, del volto.
L’iscrizione
incisa sul lato visibile della pietra, su cui posa il teschio, ha spessa valenza
“traslata” declamando: “ET IN ARCADIA EGO”. Frase, per come può apparire, dalla
struttura ellittica, vale a dire mancante di una parola, che permane sottintesa
e identificabile con “sum” (essere,
stare, abitare), mentre “et” sembra
condurre a “etiam” (anche). Ma il
termine omesso potrebbe altresì essere, secondo alcuni, “eram” (ero), coniugazione del verbo essere nell’imperfetto
indicativo della prima persona singolare; da queste fondate presupposizioni ne
deriva l’interpretazione: “Anch’io sono (o ero) in Arcadia” oppure “Io sono (o
ero) anche in Arcadia”. E’ la Morte stessa che dichiara e rammenta,
all’umanità, la sua presenza pur nei luoghi più sereni e privi di ansie,
esteriormente sospesi in uno spazio temporale di somma –ma temporalmente limitata-
felicità.
Nell’Arcadia,
antica regione storica della Grecia meridionale, sita nel Peloponneso centrale,
abitata da pastori, ha origine il culto del dio Pan, divinità delle montagne
nonché della vita agreste, spesso associato a Dioniso, accompagnato in molte
occasioni dalle ninfe montane. Egli è il protettore degli armenti; molto ama la
musica e la danza, le zone boschive e le fresche sorgenti. In origine è
effigiato con aspetto spaventosamente ferino, in seguito, però, i suoi
caratteri belluini si affievoliscono sino ad assumere un’aria decisamente
bonaria. Questo territorio diventa, nei racconti mitologici, idilliaco permettendo
ai suoi abitanti –comprese le figure mitiche- di vivere in un’atmosfera
incantata, pregna di poesia, lontano dalle tribolazioni degli “altri” uomini. Alla
fine del XV secolo la regione è evocata da Jacopo Sannazzaro, che descrive
feste e riti pastorali, in una visione che vagheggia una vita altra e,
successivamente, l’Arcadia ha ispirato una densa produzione pittorica –e non
solo- la quale canta un’utopica età aurea.
In
questa aulica cornice s’inserisce il quadro “Et in Arcadia Ego” del Guercino -in palese polemica con
quell’incantato paesaggio classicista-, autentico “memento mori” già praticato nella pittura ispirata dai e ai canoni
della Controriforma in ambientazioni di nature morte. Il tema è ripreso in
seguito dal Poussin.
“Incredulità
di S. Tommaso”
Immagine tratta da "Google Immagine" |
Quest’olio
su tela, proveniente dalla Pinacoteca dei Musei Vaticani, è stato realizzato
intorno al 1621. Ciò che immediatamente si rivela è il movimento delle mani che
svelano, che toccano, erompendo da quelle tenebre, vere coltri in cui è
impossibile vedere, conoscere, credere. Sono proprio i personaggi fasciati da
quelle ombre, le quali si ritirano innanzi al lucente chiaroscuro del Cristo -antinomia
avverabile-, magistrale linguaggio dei gesti, che simultaneamente definiscono
l’opera quale uno dei vertici dell’artista.
Lo
scettico S. Tommaso è raffigurato nel momento in cui avanza la sua contrizione,
per il suo umanissimo dubbio, evidenziata dalla mano sinistra portata al petto.
La scena è colma di figure, di fremente fisicità e di palpiti, sviluppata in
un’unica ombrata sostanza di movimenti e di panneggi, che risente del
linguaggio del Caravaggio.
“Ritratto
del Cardinale Bernardino Spada”
Immagine tratta da "Google Immagini" |
Dipinto
conservato presso la Galleria Spada, eseguito a Bologna nel 1631 -quando il
Guercino è ospitato dal Cardinale-, composto in un taglio orizzontale,
lievemente “obliquo”, che mostra una pianta geometrica a forma di stella a otto
punte, la quale allude al progetto della fortezza urbana nei pressi di
Castelfranco Emilia, di cui lo Spada quale legato pontificio ne dirige e ne
controlla le fasi costruttive, voluta da papa Urbano VIII per difendere il confine
nord-ovest dello Stato pontificio, a cui Bologna appartiene.
Ritratto
commemorativo nel quale il personaggio è raffigurato a distanza ravvicinata, in
un contesto indubbiamente ossequioso ma che comunica all’osservatore un senso
di compiaciuta affabilità, scandita da quella espressione morbidamente accesa,
intensificata dalle sue pupille scure. Questa sembianza quasi intima è
accentuata dal fondo buio, con il quale ogni insegna o evocazione della sua
preminente dignità ecclesiastica e politica viene rimossa, pur estrinsecandone con
leggerezza la padronanza delle facoltà del porporato.
“Sibilla
Persica”
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