Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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venerdì 20 febbraio 2015

Il dipinto della “Annunciazione” nella Chiesa di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda

Il complesso di S. Lorenzo de’ Speziali in Miranda (oggetto di un mio studio), formato dalla chiesa e dagli annessi locali –uno dei quali adibito a museo- appartiene al Nobile Collegio Farmaceutico Universitas Aromatariorum Urbis; esso costituisce il portato di una “metamorfosi” pronunciata nel corso dei secoli, che dal tempio di Antonino e Faustina (141, circa) conduce all’attuale aspetto architettonico, il quale ne definisce la particolare monumentalità tra il contesto ambientale dell’area del Foro Romano.
 
Il mutamento da edificio consacrato a quegli antichi “divi” a chiesa risale al 630, circa –ma secondo alcuni studiosi la trasformazione avviene all’inizio del secolo VIII-, per volere del papa Onorio I (625-638), ricordato per la sua intensa attività nel campo delle opere pubbliche e religiose. Il tempio diviene quindi ambiente cristiano dedicato a S. Lorenzo diacono, in quanto si crede che sia adiacente al luogo del martirio del santo (258). L’appellativo “in Miranda” o “de Miranda”, cui la più antica citazione è documentata nel secolo XI, deriverebbe dal verbo “mirare” –dal tardo latino “guardare con ammirazione”- il Foro. Un’altra voce indica che “Miranda” sia, in realtà, il nome della fondatrice di un monastero sorto proprio in questo sito.
 
Papa Martino V (1417-1431), nominato “Temporum suorum felicitas” (Felicità dei suoi tempi), per la sua azione di “riedificazione” -anche culturale- della città, con la bolla del giorno 8 marzo 1429, concede la chiesa di S. Lorenzo, quasi in rovina, alla “Universitas Aromatorium Urbis”, vale a dire in favore a quel Collegio di Speziali dedito alla preparazione di medicamenti a base di erbe, di altre essenze vegetali, di polveri minerali e, per l’appunto, di spezie derivate da sostanze vegetali secche anche profumate. Poiché l’edificio preesistente non può essere utilizzato quale piccolo ospedale, ne viene demolita l’intera struttura (preservando gran parte degli elementi architettonici romani superstiti), sostituita quindi da quella quattrocentesca, formata da un nosocomio e da un minuto luogo di culto.
 
Nel 1536, in occasione della visita di Carlo V, sono demolite alcune case e chiese edificate tra le spoglie del Foro Romano, per aprire la strada costruita per il corteo imperiale (alla realizzazione della quale il popolo contribuisce con il pagamento di una tassa), nella zona il cui aspetto deve apparire degno –per quanto all’epoca possibile- dei trionfi dell’antica Roma; per questa ragione sono abbattute, nell’area del complesso di S. Lorenzo, sia tre cappelle che occupano il pronao dell’antico tempio, sia una parte dell’ospedale del XV secolo.
 
La nuova temperie artistica-culturale che pervade la “Città Eterna”detta altresì la ricostruzione, d’incipiente registro barocco, di questa chiesa, la quale appare interrata, come tutta l’area del Foro, a causa delle secolari inondazioni del Tevere –non dimenticando la stratificazione derivante dalla plurisecolare attività umana-, le quali con i residui di rocce, di pietre e di fango indurito hanno innalzato il terreno, coprendo in gran parte le vetuste rovine. Il progetto è affidato a Giacomo Della Porta, alla cui morte (1602) succede, come direttore dei lavori, Orazio Torriani che ridisegna l’impianto architettonico dell’interno -nonché dell’altare maggiore- e la facciata. Egli innalza di sei metri circa il livello della costruzione e completa il primo ordine del prospetto poco avanti al 1616; il secondo ordine e il frontone vengono ripresi e terminati- con marginali modifiche del disegno originario- da Matteo Sassi tra il 1721 e il 1726. La figura planimetrica del nuovo luogo di culto (navata unica con cappelle laterali) percorre l’intera larghezza della cella del tempio romano, mentre la lunghezza, ristretta posteriormente dai vani restanti dell’ospedale del ‘400, non occupa per intero il perimetro della cella stessa ma incorpora le prime colonne del pronao templare, prostendendo lo spazio interno verso il Foro. L’aspetto nell’insieme, però, risulta molto simile a quello dell’edificio romano –come dimostra la mancanza dell’abside- giacché i lavori del XVII secolo non ne mutano la struttura complessiva.
 
L’insieme della facciata ne mostra l’ardita creazione, comprendente le lesene con capitelli ionici, il portale con timpano arcuato e la finestra creata sotto il superiore grande timpano curvilineo spezzato. Poiché tale prospetto è posto dietro alle colonne frontali, quest’ultime in tal modo sono trasformate in un portico.
 
 
 

Immagine tratta da "Google Immagini"


 
 
 
 
 
L’interno della chiesa rappresenta un raccolto e pregevole patrimonio pittorico, come palesano le opere ivi esposte, tra le quali cito “S. Caterina da Siena bacia il costato di Cristo”, attribuita a Francesco Vanni (1563–1610) ma da alcuni studiosi ascritto a Giovanni de’ Vecchi (1536-1615) di cui il Vanni è stato allievo. Ho incluso la descrizione, di tale quadro, nel post (pubblicato il primo dicembre 2014) di commento alla mostra “I Papi della Speranza”, poiché compreso in quell’evento.
 
Ora voglio soffermarmi sul dipinto della “Annunciazione”, bellissima pala d’altare, di Alessandro Fortuna (1596, circa-1623), allievo di Domenico Zampieri, detto il Domenichino (1581-1641). Giovanni Battista Passeri (1610, circa-1679), altro seguace dello Zampieri nonché autore di “Vite dei pittori, scultori e architetti che hanno lavorato in Roma, morti dal 1641 al 1673” (pubblicate postume nel 1772), indica con sicurezza quale autore di tale opera il Fortuna; al contrario studi moderni affermano che essa è stata eseguita, con stupefacente abilità tecnica, inconfutabilmente dal Fortuna però su disegni del suo maestro, rilevandone la strettissima dipendenza dal Domenichino.
 
A tutt’oggi questo lavoro (databile intorno al 1620) costituisce l’unico generalmente noto del giovane artista. Invero, la cifra domenichiana vi è del tutto espressa nel vivo ricordo della statuaria antica però con sistema privo di freddezza e di accademico ricalco. Il fondo, scuro, è dischiuso da una calda tonalità paesaggistica scevra da qualsiasi accenno lezioso; la resa dell’atmosfera, sebbene contenuta in un riquadro, palesa graduale e calcolata modulazione dei colori verso la montagna, azzurra, con un gioco di progressive esili velature. La beltà dell’arcangelo Gabriele viene accentuata dal candore dell’incarnato esuberante, dai capelli biondi e dai riccioli, genuina ricerca di effetti preziosi esaltati anche dallo splendore delle forme, dei colori. La saldezza plastica, la purezza dei lineamenti, la cura dei dettagli rimanda a sculture ellenistiche e la sacralità della scena non si dissolve in immagini forzatamente eteree, ostentatamente spirituali, permanendo invece nell’alveo di una soave melodia terrena. Il disegno rende tangibile la propria fulgente accuratezza in morbide cromatiche luci, in un insieme di spessa classicità, avulsa dalla pur splendida magniloquenza barocca in auge nel XVII secolo. I due personaggi, la Vergine -ritratta con esemplare chiarezza e notevolissima disserrata sensibilità plastica- e Gabriele, sono raffigurati in leggeri piani “diagonali”, ritmicamente articolati; una composta sorpresa permea il viso di Maria –reale giovinetta- il cui gesto delle braccia, delle mani -così aperte- è voce della sua consacrazione. I putti dipinti sono tra gli elementi “graziosi” tipici dello stile del Domenichino: tramite essi l’azione scenica, benchè densa di sostanza spirituale, si alleggerisce pur in quel discendere dello Spirito Santo, folto di modulato bagliore.     
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 

 
 

 


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