Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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mercoledì 10 dicembre 2014

Francesco Borromini: l’Oratorio dei Filippini (facciata e primo cortile)


 
I Filippini (o Oratoniani come sono anche chiamati nel XVII secolo) costituiscono un ordine recente, nel panorama della Roma della prima metà del ‘600. Fondato da S. Filippo Neri (morto nel 1595) ne seguono gli insegnamenti, che all’aiuto caritatevole in favore dei poveri uniscono la volontà di diffondere il sapere presso una platea molto vasta della città, comprendente i ricchi, i miseri, i dotti, gli ignoranti, i potenti ecclesiastici e nobili, i sudditi: l’assoluto valore dello studio e della pratica delle arti, in particolar modo quella musicale, devono essere testimoniati a ognuno.
Già dal 1575 la Chiesa di S. Maria in Vallicella, con un convento appartenuto prima ai francescani, è la sede della Congregazione dell’Oratorio, voluta da S. Filippo; la struttura, però, è quasi in rovina trovandosi, inoltre, in un caotico dedalo, un andirivieni di strade e di vicoli affollati sui quali si affacciano botteghe di artigiani e modestissime case abitate da manovali. I Filippini decidono di edificare una nuova chiesa -da qui nasce e perdura il nome “Chiesa Nuova”- consona alla missione che essi perseguono, la cui costruzione (dal 1575) e il relativo abbellimento comprendono l’opera di Matteo di Città di Castello, di Martino Longhi il Vecchio, di Fausto Rughesi -al quale si deve la facciata barocca inquadrata da lesene-, di Giacomo Della Porta, di Pietro da Cortona, di Peter Paul Rubens, di Guido Reni, di Carlo Maratta, di Alessandro Algardi, di Paolo Maruscelli, di Cosimo Fancelli, di Ercole Ferrata, del Cavalier d’Arpino e di molti altri artisti ancora.
Intorno al 1604 gli Oratoriani, ormai divenuti numerosi, si stabiliscono definitivamente nel rione –denominato fin dal XIII secolo Parione, dal latino paries, vale a dire “parete, muro”, per un massiccio di avanzo di muro antico sito nei pressi dell’attuale Piazza Navona, oggi scomparso- ma gli alloggi da essi occupati, ormai angusti, non riescono a contenerli adeguatamente. A tale aspetto occorre aggiungere uno dei cardini del pensiero di questo ordine, che si identifica con la grande importanza, come già detto, consegnata alla musica, quale arte di persuasione religiosa. L’insieme di tali motivazioni determina la volontà di acquistare un terreno accanto alla chiesa e il progetto di innalzare una “dimora”, che sia la loro nuova residenza, nella quale devono esservi inclusi anche l’oratorio, ai fini di iniziative culturali religiose quindi non liturgiche, la biblioteca, nonché il refettorio.  
Nel 1622 Filippo Neri è canonizzato (papa Gregorio XV), avvenimento che determina una maggiore considerazione “dell’opinione pubblica” nei confronti degli Oratoniani, mentre un giovane aristocratico romagnolo, Virgilio Spada, arriva a Roma ed entra nel loro ordine. Architetto dilettante, ben presto ricopre una rilevante posizione nella cura amministrativa dell’Oratorio, assumendone un ruolo decisivo in merito alla sua edificazione. Diventa, in poco tempo, molto influente riguardo alla politica architettonica della città, essendo, più tardi, anche elemosiniere segreto (1644) di due pontefici che hanno sigillato a Roma magnifiche “affermazioni” barocche: Innocenzo X e Alessandro VII. Per oltre un decennio (1624-1637) collabora con il Maruscelli, l’architetto inizialmente incaricato dall’ordine di progettare la costruzione del nuovo convento, il cui progetto prevede ben 131 stanze. Per quanto, però, quest’ultimo s’impegni nel voler realizzare il complesso, iniziando  dalla Sacrestia della Chiesa Nuova (1621 -1629), condizionando l’ubicazione e la distribuzione planimetrica dell’intero edificio, non è considerato dai Padri Filippini l’architetto adatto a materializzarne il programma costruttivo. Lo Spada, nel frattempo, si accorge della genialità del Borromini, che sta completando la sua opera presso la Chiesa di S. Carlo (chiamato comunemente S. Carlino alle Quattro Fontane). Quasi contemporaneamente i Filippini indicendo un concorso, manifestano la loro ormai innascondibile insoddisfazione circa il lavoro, piuttosto progettuale, prestato al nuovo convento e, quindi, intendono scegliere un altro architetto. Numerosi accorrono nel presentare i propri disegni, tra i quali figura quello del Borromini, il quale, stando a quanto indicano i documenti ufficiali, non gode di alcuna raccomandazione ed è scelto, secondo il bando concorsuale, con il voto segreto. La scelta dunque sarebbe caduta sul suo progetto, senza “l’intervento benevolo” di nessun cardinale, d’importante ecclesiastico o di nobile ma soltanto grazie all’azione delle sue opere, evento innovativo e unico, se rispondente alla verità, avvenuto nella Roma dell’epoca!
Inizialmente egli affianca il Maruscelli, il quale è subito sottoposto alle pesanti e argomentate critiche del giovane nuovo “collega”, che senza indugio propone delle sostanziali modifiche ai disegni sino a quel momento realizzati dallo stesso Maruscelli, che poco dopo rinuncia a sostenere il suo progetto, sopravanzato dal genio creativo del Borromini. Pur rimanendo, quest’ultimo, l’unico architetto, è costretto a lasciare, in virtù di quanto poco costruito sino a quel momento, l’Oratorio nella posizione ideata dal suo predecessore ma imprime alla facciata uno sviluppo più imponente, evitando, però, di gareggiare per importanza con il prospetto in travertino dell’attigua Chiesa. Infatti, ciò che si ammira oggi dal concitato Corso Vittorio Emanuele II, appare come un movimentato insieme architettonico; è una sorta di sagoma rettangolare a tre sezioni, cui il corpo centrale del prospetto è formato da una sola curva lievemente accentuata, esprimendo una composita tensione e mostrando la sua spontanea raffinatezza. Tale effetto è risaltato dalla levigatezza dell’edificio in laterizi – limitatissimi sono gli inserti di travertino-, edificato con mattoni di scarso spessore fissati da un sottile strato di malta.
L’artista nell’Opus Architectonicum, redatto insieme allo Spada nel 1647, pubblicato soltanto nel 1725, scrive a riguardo:” Nel dar forma à detta facciata mi figurai il corpo humano con le braccia aperte com’che abracci ogn’uno che entri, qual corpo con le braccia aperte si distingue in cinque parti, cioè il petto in mezzo, e le braccia ciascun’in doi pezzi dove si snodano”.
La facciata che si sviluppa magnificamente anche in altezza, mostra quale apice un grande frontone, cui le fattezze sono costituite da una riuscita fusione tra linee rette e linee curve, due motivi differenti e opposti ma coniugati in un unico continuo assieme. Tutto il prospetto è colmo di sofisticati dettagli, come dimostrano gli elementi del già citato ingresso centrale sormontato da un timpano, che se rappresenta la versione minuta di quello che corona il sommo spazio di questa complessa opera, differenziandosene per il sapientissimo e originale utilizzo di sole linee rette. Il portale posto a destra, il quale funge da effettivo ingresso all’Oratorio, risulta in asse con il percorso che corre longitudinalmente per tutto il complesso,. Anche in questo caso, riguardo al timpano, il Borromini combina in un unico elemento continuo le differenti linee, in  modo da farle sporgere, rispetto alla parete, per mezzo di un movimento di cangianti cornici.
Tale affascinante visione è riaffermata da due ordinate sequenze di sei pilastri monumentali, i quali si stagliano tra le finestre arcuate dei piani, notando che il profilo si declama in modo differente in ognuno di essi. Al livello della biblioteca è collocata un’alta nicchia concava sotto la quale un elaborato e vivace timpano di pietra impreziosisce la grande porta lignea, cui davanti si apre un balcone ovale. L’aspetto non può non attirare lo sguardo dell’osservatore, preso dalla visibile creatività, sorprendente, del Borromini, seppur non completamente espressa, per i rigidi limiti imposti dai Filippini all’artista, tanto da fargli scrivere nell’Opus:“ Prego chiunque leggerà dette mie observazioni di riflettere ch’io ho dovuto servire una congregatione di anime tal limitate che han tenuto con forza le mani mie via dagli ornamenti e in molti posti ubbidire ho dovuto alla volontade loro anzi all’arte”.   
Il complesso attualmente è oggetto di restauro e di risistemazione, che interessa, per lo più, i bellissimi ambienti interni, cui il grande talento del Borromini è confermato. Almeno, però, il primo cortile può essere ancora ammirato, osservando ad esempio la linea simmetrica, delle finestre, coincidente, altresì nella forma, con l’arcata del cortile stesso mentre il tutto è incorniciato da sottili lesene di pietra e di stucco, che ascendono armoniosamente per i chiari muri, superando le arcuate e vetrate luci.
 

 
 



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