I
Filippini (o Oratoniani come sono anche chiamati nel XVII secolo) costituiscono
un ordine recente, nel panorama della Roma della prima metà del ‘600. Fondato
da S. Filippo Neri (morto nel 1595) ne seguono gli insegnamenti, che all’aiuto
caritatevole in favore dei poveri uniscono la volontà di diffondere il sapere
presso una platea molto vasta della città, comprendente i ricchi, i miseri, i
dotti, gli ignoranti, i potenti ecclesiastici e nobili, i sudditi: l’assoluto
valore dello studio e della pratica delle arti, in particolar modo quella
musicale, devono essere testimoniati a ognuno.
Già
dal 1575 la Chiesa di S. Maria in Vallicella, con un convento appartenuto prima
ai francescani, è la sede della Congregazione dell’Oratorio, voluta da S.
Filippo; la struttura, però, è quasi in rovina trovandosi, inoltre, in un caotico
dedalo, un andirivieni di strade e di vicoli affollati sui quali si affacciano
botteghe di artigiani e modestissime case abitate da manovali. I Filippini
decidono di edificare una nuova chiesa -da qui nasce e perdura il nome “Chiesa
Nuova”- consona alla missione che essi perseguono, la cui costruzione (dal 1575)
e il relativo abbellimento comprendono l’opera di Matteo di Città di Castello,
di Martino Longhi il Vecchio, di Fausto Rughesi -al quale si deve la facciata
barocca inquadrata da lesene-, di Giacomo Della Porta, di Pietro da Cortona, di
Peter Paul Rubens, di Guido Reni, di Carlo Maratta, di Alessandro Algardi, di
Paolo Maruscelli, di Cosimo Fancelli, di Ercole Ferrata, del Cavalier d’Arpino
e di molti altri artisti ancora.
Intorno
al 1604 gli Oratoriani, ormai divenuti numerosi, si stabiliscono definitivamente
nel rione –denominato fin dal XIII secolo Parione, dal latino paries, vale a dire “parete, muro”, per
un massiccio di avanzo di muro antico sito nei pressi dell’attuale Piazza
Navona, oggi scomparso- ma gli alloggi da essi occupati, ormai angusti, non
riescono a contenerli adeguatamente. A tale aspetto occorre aggiungere uno dei
cardini del pensiero di questo ordine, che si identifica con la grande
importanza, come già detto, consegnata alla musica, quale arte di persuasione
religiosa. L’insieme di tali motivazioni determina la volontà di acquistare un
terreno accanto alla chiesa e il progetto di innalzare una “dimora”, che sia la
loro nuova residenza, nella quale devono esservi inclusi anche l’oratorio, ai
fini di iniziative culturali religiose quindi non liturgiche, la biblioteca,
nonché il refettorio.
Nel
1622 Filippo Neri è canonizzato (papa Gregorio XV), avvenimento che determina
una maggiore considerazione “dell’opinione pubblica” nei confronti degli
Oratoniani, mentre un giovane aristocratico romagnolo, Virgilio Spada, arriva a
Roma ed entra nel loro ordine. Architetto dilettante, ben presto ricopre una
rilevante posizione nella cura amministrativa dell’Oratorio, assumendone un
ruolo decisivo in merito alla sua edificazione. Diventa, in poco tempo, molto
influente riguardo alla politica architettonica della città, essendo, più
tardi, anche elemosiniere segreto (1644) di due pontefici che
hanno sigillato a Roma magnifiche “affermazioni” barocche: Innocenzo X e
Alessandro VII. Per oltre un decennio (1624-1637) collabora con il Maruscelli, l’architetto
inizialmente incaricato dall’ordine di progettare la costruzione del nuovo
convento, il cui progetto prevede ben 131 stanze. Per quanto, però,
quest’ultimo s’impegni nel voler realizzare il complesso, iniziando dalla Sacrestia della Chiesa Nuova (1621
-1629), condizionando l’ubicazione e la distribuzione planimetrica dell’intero
edificio, non è considerato dai Padri Filippini l’architetto adatto a
materializzarne il programma costruttivo. Lo Spada, nel frattempo, si accorge
della genialità del Borromini, che sta completando la sua opera presso la
Chiesa di S. Carlo (chiamato comunemente S. Carlino alle Quattro Fontane). Quasi
contemporaneamente i Filippini indicendo un concorso, manifestano la loro ormai
innascondibile insoddisfazione circa il lavoro, piuttosto progettuale, prestato
al nuovo convento e, quindi, intendono scegliere un altro architetto. Numerosi
accorrono nel presentare i propri disegni, tra i quali figura quello del
Borromini, il quale, stando a quanto indicano i documenti ufficiali, non gode
di alcuna raccomandazione ed è scelto, secondo il bando concorsuale, con il
voto segreto. La scelta dunque sarebbe caduta sul suo progetto, senza
“l’intervento benevolo” di nessun cardinale, d’importante ecclesiastico o di nobile
ma soltanto grazie all’azione delle sue opere, evento innovativo e unico, se
rispondente alla verità, avvenuto nella Roma dell’epoca!
Inizialmente
egli affianca il Maruscelli, il quale è subito sottoposto alle pesanti e
argomentate critiche del giovane nuovo “collega”, che senza indugio propone
delle sostanziali modifiche ai disegni sino a quel momento realizzati dallo
stesso Maruscelli, che poco dopo rinuncia a sostenere il suo progetto,
sopravanzato dal genio creativo del Borromini. Pur rimanendo, quest’ultimo,
l’unico architetto, è costretto a lasciare, in virtù di quanto poco costruito
sino a quel momento, l’Oratorio nella posizione ideata dal suo predecessore ma
imprime alla facciata uno sviluppo più imponente, evitando, però, di gareggiare
per importanza con il prospetto in travertino dell’attigua Chiesa. Infatti, ciò
che si ammira oggi dal concitato Corso Vittorio Emanuele II, appare come un
movimentato insieme architettonico; è una sorta di sagoma rettangolare a tre
sezioni, cui il corpo centrale del prospetto è formato da una sola curva
lievemente accentuata, esprimendo una composita tensione e mostrando la sua
spontanea raffinatezza. Tale effetto è risaltato dalla levigatezza
dell’edificio in laterizi – limitatissimi sono gli inserti di travertino-, edificato
con mattoni di scarso spessore fissati da un sottile strato di malta.
L’artista
nell’Opus Architectonicum, redatto insieme allo Spada nel 1647, pubblicato soltanto
nel 1725, scrive a riguardo:” Nel dar forma à detta facciata mi figurai il corpo humano con le
braccia aperte com’che abracci ogn’uno che entri, qual corpo con le braccia
aperte si distingue in cinque parti, cioè il petto in mezzo, e le braccia
ciascun’in doi pezzi dove si snodano”.
La
facciata che si sviluppa magnificamente anche in altezza, mostra quale apice un
grande frontone, cui le fattezze sono costituite da una riuscita fusione tra
linee rette e linee curve, due motivi differenti e opposti ma coniugati in un
unico continuo assieme. Tutto il prospetto è colmo di sofisticati dettagli,
come dimostrano gli elementi del già citato ingresso centrale sormontato da un
timpano, che se rappresenta la versione minuta di quello che corona il sommo
spazio di questa complessa opera, differenziandosene per il sapientissimo e
originale utilizzo di sole linee rette. Il portale posto a destra, il quale
funge da effettivo ingresso all’Oratorio, risulta in asse con il percorso che
corre longitudinalmente per tutto il complesso,. Anche in questo caso, riguardo
al timpano, il Borromini combina in un unico elemento continuo le differenti
linee, in modo da farle sporgere,
rispetto alla parete, per mezzo di un movimento di cangianti cornici.
Tale
affascinante visione è riaffermata da due ordinate sequenze di sei pilastri
monumentali, i quali si stagliano tra le finestre arcuate dei piani, notando
che il profilo si declama in modo differente in ognuno di essi. Al livello
della biblioteca è collocata un’alta nicchia concava sotto la quale un
elaborato e vivace timpano di pietra impreziosisce la grande porta lignea, cui
davanti si apre un balcone ovale. L’aspetto non può non attirare lo sguardo
dell’osservatore, preso dalla visibile creatività, sorprendente, del Borromini,
seppur non completamente espressa, per i rigidi limiti imposti dai Filippini
all’artista, tanto da fargli scrivere nell’Opus:“
Prego chiunque leggerà dette mie observazioni
di riflettere ch’io ho dovuto servire una congregatione di anime tal limitate
che han tenuto con forza le mani mie via dagli ornamenti e in molti posti
ubbidire ho dovuto alla volontade loro anzi all’arte”.
Il
complesso attualmente è oggetto di restauro e di risistemazione, che interessa,
per lo più, i bellissimi ambienti interni, cui il grande talento del Borromini
è confermato. Almeno, però, il primo cortile può essere ancora ammirato,
osservando ad esempio la linea simmetrica, delle finestre, coincidente, altresì
nella forma, con l’arcata del cortile stesso mentre il tutto è incorniciato da
sottili lesene di pietra e di stucco, che ascendono armoniosamente per i chiari
muri, superando le arcuate e vetrate luci.
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