La Basilica dei Santi Cosma
e Damiano è posta sulle rovine del “Foro” della Pace, così definito per la sua
forma molto simile a quella degli altri Fori, celebranti il prestigio della
Roma imperiale, dei quali costituiva una sorta di ampliamento. In realtà esso
era un tempio dedicato alla dea Pace (Templum
Pacis), divinità romana, Pax,
corrispondente a quella greca, Irène. Edificio
costruito tra il 71 e il 75 dall’imperatore Tito Flavio Vespasiano, per glorificare
l’avvenuta pacificazione in tutto l’esteso territorio dell’Impero, già percorso
da forti rovinose tensioni cessate con la forza, come avvenuto con la guerra
contro l’altro acclamato imperatore Aulo Vitellio (68-69), con la rivolta dei
Batavari nella Germania Settentrionale e nella Gallia (70). Inoltre, l’assoggettamento
definitivo della Giudea (67-68) ribellatosi alla totale potestà romana, nonché
l’abbattimento materiale e ideale di Gerusalemme (70), rappresentarono l’inizio
di quell’equilibrio politico, economico, sociale intrapreso dal sovrano Flavio,
che intese esaltare queste imprese attraverso l’innalzamento di quel complesso
monumentale. Il Tempio distrutto da un incendio nel 192 fu ricostruito e in
parte trasformato da Settimio Severo (199/201, circa-211) realizzando anche la Forma Urbis Romae, grandiosa pianta
marmorea.
Con
la caduta di Roma nell’area si evidenziò (nel corso del V secolo) il degrado già
originatosi durante gli ultimi “respiri” dell’Impero, ai quali seguì agli inizi
del VI secolo l’abbandono della zona. Tra il 526 e il 530 Amalasunta, figlia di
Teodorico, il re degli Ostrogoti che esercitava autorità altresì su Roma -secondo
il riconoscimento dell’imperatore bizantino Anastasio I- volle donare al
vescovo della decaduta “Urbe”, Felice IV, due edifici del Foro: sia un’aula di
quanto ancora si ergeva di quel colossale Tempio, ove anticamente era collocata
la Bibliotheca Pacis, sia il cosiddetto “Tempio del divo Romolo”
affacciato sulla Via Sacra. Quest’ultimo, secondo alcuni studi, in realtà non fu
un luogo di culto bensì un nuovo ingresso, costruito in forma circolare intorno
al 309, del Tempio della Pace, utilizzando materiale di altri edifici. La
maggior parte degli studiosi però identifica, tale ambiente, quale ricostruzione
del Tempio di Giove Statore, annullandone così l’individuazione come “Tempio
del divo Romolo”, edificio che, Massenzio, avrebbe eretto a perpetuo culto del
figlio Valerio Romolo -morto all’età di quindici anni- e come tale considerato
per lunghissimo tempo (dall’Alto Medioevo alla fine del XIX secolo),
confondendolo con quell’imponente mausoleo posto sull’antica Via Appia, probabilmente
poi mutato in sepolcro dinastico, innalzato dall’imperatore, vicino al suo
circo e alla sua grandiosa villa, in memoria e in onore del giovanissimo figlio
defunto.
Felice
IV dunque trasformò quegli ambienti donategli in basilica cristiana, dedicandola
ai Ss. Cosma e Damiano, secondo la tradizione gemelli nati in Siria e dediti
all’arte medica, martirizzati nel 303; questo papa realizzò il magnifico
mosaico absidale e, quasi sicuramente, quello dell’arco trionfale. Ulteriori opere
di abbellimento furono volute da Gregorio I (fine VI secolo), da Sergio I (fine
VII secolo), da Paolo I (metà VIII secolo) e da Adriano I (fine VIII secolo).
Altri interventi furono eseguiti nello svolgersi temporale: al secolo XI
apparteneva il bel campanile distrutto da un terremoto avvenuto agli inizi del
Seicento; intorno al 1150 fu creato il pavimento cosmatesco e restaurato quello
che rimaneva del periodo romano; all’inizio del XIII secolo furono affrescate
alcune pareti, lavori attribuiti all’ambito di Jacopo Torriti o di Pietro
Cavallini (il dibattito è in corso ma io serbo miei convincimenti); nel 1503 la
chiesa venne affidata ai frati Francescani, che ne iniziarono i lavori di
ristrutturazione; tra il 1592 e il 1605 furono costruite sei cappelle laterali,
restringendo la navata ed edificando sopra di esse altrettante piccole celle
destinate ai frati.
Il
livello stradale però si era sollevato, durante il correre dei secoli, di circa
otto metri (recenti studi dimostrerebbero che il pavimento della Basilica fu
rialzato più volte), determinando una difficoltosa frequentazione del luogo, a
tal punto da necessitare il compimento di, un’enorme, scavatura del terreno
innanzi all’ingresso basilicale. Per consentire un agevole e razionale accesso,
il pontefice Urbano VIII volle perciò concretare un totale rinnovamento di
tutto l’ambiente (1626-1638), attraverso la posa di un secondo pavimento
corrispondente al livello stradale dell’epoca, sostenuto da pilastri e da una
volta; ne conseguì la relativa sopraelevazione dell’antico portone bronzeo e degli
elementi esterni architettonici ad esso connessi, che mantennero in tal modo la
funzione di ingresso della Basilica. Questa sistemazione rimase immutata fino
al termine del XIX secolo, quando per gli scavi archeologici e di recupero dei
Fori, quell’insieme formato dai battenti di bronzo, dalle due colonne di
porfido rosso con capitelli corinzi in marmo bianco, dalla preziosa architrave,
dall’ornato fregio e dalla brillante cornice, fu ricollocato come lo era in
epoca romana, vale a dire nuovamente a otto metri, circa, in basso, come si
mostra oggi. L’ingresso attuale, aperto sulla Via dei Fori Imperiali, è stato
creato nella risistemazione del 1947, sostituendo quello posto sul fianco
destro dell’edificio, utilizzato per l’appunto dalla fine del secolo XIX sino a
tale anno.
L’estremo
mutamento, attuato da quel celebre papa seicentesco, sancì la definizione della
nuova Basilica, verso cui il “Tempio del divo Romolo” fungeva ancora da atrio,
munito però di una piccola cupola e di un lanternino al vertice (1638) rispondente
all’antico foramen romano, simile a
quello del Pantheon, per garantire
l’illuminazione del vano. Il complesso architettonico perciò fu diviso
orizzontalmente in due parti, in due chiese distinte: un grande spazio ipogeo (all’epoca, oggi forma la cripta) e un
vasto ambiente superiore, che compone l’odierna Basilica.
Entrando
in questo luogo di culto si nota, tra le lucentezze conservate, la piccola
cappella del lato destro della navata, che occupa lo spazio ove sorgeva il
campanile rovinato agli inizi de XVII secolo. La volta decorata nel 1637 da
Giovanni Battista Speranza, rappresenta scene della “Passione di Cristo” eseguite con buona mano pittorica, voluminosa
nei tratti dipinti e con una raffigurazione ambientale accurata e vigorosa,
riflettente aspetti stilistici barocchi. L’ancona che risalta dall’altare,
sotto la cui mensa è riposto un pregevole vaso di porfido, quasi un piedistallo,
contenente reliquie di martiri e già conservato nella chiesa inferiore, raffigura
il Kyrios, il Signore, il Cristo vivo
e regale sulla Croce (particolare Christus
Trimphans), raro affresco del secolo VIII (un altro
coevo esempio è visibile tra le rovine della chiesa di S. Maria Antiqua al Foro
Romano, poco distante) anch’esso proveniente dalla cripta e qui posto nel 1638,
circa, incorniciato da due raffinatissime colonnine di pietra lumachella rosata.
La figurazione, nel cui bizantinismo s’interpone una monumentalità echeggiante l’antica
arte romana, mostra il Messia abbigliato di una lunga tunica. Questa, pregevolmente
ornata, disegna sul davanti una striscia fissata al tessuto e una chiusa cintura,
dispiegandosi con evidenza la sagoma della Croce sulla veste di Cristo, che
indossa altresì una corona quale Re del Cosmo (ordine universale), poiché Egli ha sconfitto definitivamente il
caos (spalancata voragine) introdotto nella creazione dal peccato (smarrimento
della retta via). Quel “legno” (strumento di pena mortale) appena accennato
dietro la nobile figura del Salvatore, viene trasformato elevandolo a cardine
dell’intera armonia universale, attraverso il supremo sacrificio del Messia, ribadito
su quel solenne abito; la Croce quindi, al cui centro sta il Figlio di Dio, si
protende per i quattro punti cardinali cosmici.
Questo dipinto sospinge verso una
riflessione, che ci introduce in quel particolare accento compositivo proprio
della tradizione bizantina, così presente a Roma soprattutto tra il VII e il X
secolo.
Cristo restituisce agli uomini, ormai così
lontani dall’Eterno Padre, l’immagine palpabile della gloria divina per mezzo
del “Suo essere”, come viva icona di Dio secondo quanto proclama S. Paolo nella
Epistola ai Colossesi, capitolo 1, versetto 15: ” è immagine dell’invisibile Dio”, affermando al capitolo 2, versetto
9: ”poiché in Lui abita corporalmente
tutta la pienezza della Deità”. Nella Epistola agli Ebrei, capitolo 1,
versetti 3-5, la definizione dell’unicità dell’elevatezza di Cristo è ancor più
argomentata: ” il quale essendo lo
splendore della Sua gloria (di Dio) e
l’impronta della Sua essenza (di Dio)
e sostenendo tutte le cose con la parola della Sua potenza (di Dio), quand’ebbe fatta la purificazione dei
peccati, si pose a sedere alla destra della Maestà nei luoghi altissimi,
diventato così tanto superiore agli angeli, di quanto il nome che ha ereditato
è più eccellente del loro”. Il
Salvatore quindi oltre a permettere all’umanità di guardare nuovamente il Dio
Padre, attraverso la Sua immagine reale perciò non confusa nel mito, ne effonde
la gloria, la potenza, la somma autorevolezza poiché possiede il carattere (impronta)
dell’Eterno Padre.
Il distintivo tema iconografico, del Kyrios, sembra trovare dunque la sua
fonte in questi testi, che sono espressi, visivamente, adoperando uno schema
iconografico alquanto rigido, un’idealizzazione dello spazio, una nobilitazione
della figura, una presenza di elementi simbolici, con i quali espandere una
“ferma apparizione mistica”, uno sguardo verso una realità alta che,
altrimenti, sfugge ai sensi, i quali invece possono cogliere, almeno in
superficie, quella inintelligibile verità divina attraverso un linguaggio
cromatico e una combinazione di preziosità ornamentali.
L’affresco quasi integro è stato eseguito,
come già detto, nel secolo VIII; il Cristo trionfante si mostra privo dei piedi
sovrapposti, ha gli occhi aperti “segno
di riconoscimento” della conoscenza assoluta, che tutto comprende e a cui nulla
gli è estraneo (posto fuori); sguardo del “Fedel
testimone, il Primogenito dei morti e il Principe dei re della terra. A Lui che
ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati col Suo sangue e ci ha fatti essere
un regno e sacerdoti all’Iddio e Padre Suo” (Apocalisse, capitolo 1,
versetti 5-6). Egli è stato chiamato da Dio che: ” ha dato tutto il giudizio al Figlio affinché tutti onorino il Figlio
come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio non onora il Padre che la
mandato”. Quegli occhi così vivi testimoniano il Suo trionfo dal legno e
ugualmente al serpente di bronzo issato sull’asta, da Mosè, nel deserto
(Numeri, capitolo 21, versetti 8-9), prefigurazione del Salvatore crocifisso,
Egli dona la salvezza e la vita eterna a chi con fede a Lui si volge. Un
esterno fondo azzurro contorna la scena, colore ripreso dal disegno della veste;
simbolo visibile della spiritualità, esso è il colore che rappresenta l’immaterialità
dell’aria, dell’incorporeità della verità celeste manifestata dal soffio dello
Spirito. Una rossa formella inquadra il Crocifisso, colorazione del Suo sangue
sacrificale, della forza spirituale che Egli irradia, del Suo fervido amore
verso le creature umane, di cui conosce la fragilità; i numerosi fiori in essa
contenuti sono il segno della benevolenza di Dio che sconfigge la morte. Le
preziosità, fermate sulla tunica del Sacro Personaggio, rappresentano la luce e
la perfezione celeste.
Continuiamo ad osservare i dettagli
stilistici di questa antica opera; si nota una stilizzazione simmetrica
mitigata però, come si è detto, da un recupero parziale della precedente antica
“scuola” romana, che non evita, in maniera volontaria, una dichiarata e salda
ieraticità, favorendo atteggiamenti figurati e modelli decorativi, i quali
danno forma all’eternità dell’evento. Astrazione piuttosto marcata e senso
ornamentale dell’impianto pittorico ne manifestano la figurazione, il cui
bizantinismo dunque non si mostra di contenuta portata, anzi la staticità
gestuale lega compositivamente e psicologicamente a quello spesso senso di
assolutezza, reso tangibile in un culmine cromatico. Il disegno segue una
prefissata cadenza ritmica, una ferma compostezza dei contorni; in tal maniera
il colore viene slegato da ogni empirismo che possa modificare l’universalità
così rappresentata, asserendo un canto di acuto bagliore spirituale, sancendo
l’unità fra l’atto artistico eseguito e il pieno pensiero sorto nell’osservatore
sulla scena esposta.