Questo post rappresenta un’abbreviata
esposizione, di una parte dell’ex Complesso conventuale di S. Cosimato, che nel
suo insieme è oggetto di un mio articolato studio. Ho ripreso il passaggio
concernente il portale marmoreo della Chiesa, ampliandone la descrizione rispetto all’articolo
già pubblicato, su questo blog, il 19 dicembre 2014.
Una più estesa lettura di tale ambiente (ma
non esaustiva), rarissimo luogo nascosto di Trastevere, include altresì, tra i
suoi “cammei”, l’affresco effigiante la “Vergine in trono con il Bambino tra i SS.
Francesco e Chiara”, eseguito da Antonio
del Massaro da Viterbo, detto il Pastura, collocato nella parete sinistra contigua all’altare maggiore della
Chiesa stessa (post del 14 aprile
2016, al momento undicesimo tra i più letti).
***
Il
giardino, dischiuso dal protiro, disvela uno spazio di densa sacralità, non
soccombendo a quanto, l’odierna sciattezza, si adopera a imprimere in questo
aulico ambiente, che invece ancora si manifesta ai visitatori più attenti, proemio
tangibile di quel, vivido, limitare da dove lo spazio del chiostro, -hortus conclusus- dunque non accessibile
agli occhi esterni, rammenta alle vigili tempie che l’umana condizione può approdare a un’intima spiritualità,
materialmente sussurrata attraverso la disposizione di differenti elementi
architettonici e naturali, che alludono alla conoscenza altra e alla vita
eterna.
Ammiriamo
dunque il terreno disteso dinanzi al prospetto della Chiesa, già coltivato con
piante fiorifere e ornamentali, concepito per condurre, il fedele, non verso il
claustrum a lui interdetto ma in
quella momentanea però ristoratrice separatezza -propria del giardino- dal
disordine “del mondo”, tale da sospingere l’animo a quella fonte di salvezza aperta
dal luogo cultuale, che si eleva dinanzi ai suoi occhi.
Dopo
aver rivolto lo sguardo allo slancio dei “fascinosi affetti” sussurrati da tali
luoghi, iniziamo a ricostruire la genesi inerente a questa parte dell’ex Complesso
monastico. L’ultimo suo corposo lavoro di ampliamento viene eseguito tra il
1755 e il 1756 sotto la badessa Ermenegilda Acquaroni, con il quale è
ingrandito l’edificio, includente la residenza della priora (ristrutturata tra
il 1871 e il 1872 dalla badessa Maria Luisa Blanco), affiancato al lato sinistro
del prospetto della Chiesa. In precedenza, nel 1731, si è già sistemato il “giardino
d’ingresso” piantandovi differenti organismi vegetali, creando un insieme
variegato di alberi e di colori e di gradevolissime fragranze, collocandovi una
vasca termale romana di granito grigio (fig. 1), ascrivibile alla fine del III
sec. d. C., cui la forma costruita coincide, in gran parte, con le vasche oggi
poste in Piazza Farnese, anticamente comprese nelle Terme di Caracalla (inizio
III sec. d. C.). Infatti, la nostra vascula
scandisce, per come appare, una sorta di tema “in scala ridotta” -enunciata
con alcuni caratteri formali differenti- di quanto magnificamente esprimono i
bacini dello slargo farnesiano (così disposti nel 1626); invero, essa poggia,
sollevandosi, su una minuta vasca dai bordi di travertino, mentre al suo
interno un corposo e squadrato balaustro innalza un catino –dal quale
lievemente gorgogliano quattro zampilli d’acqua, riversati nella vasca romana e
da questa sospinti nel bacino ultimo- definito da una bacellatura, ossia da
quell’accento decorativo composto da motivi convessi. L’installazione di tale
arredo architettonico quale fontana sembra, senza cedere a iperboli, in questo
contesto ambientale concretare l’idea di una trasposizione simbolica di
immagini, volte a evocare la sorgente di somma e costante sapienza scaturita da
Cristo e conservata interamente nel seno della Vergine, come le si attribuisce
in un passo delle Litanie Lauretane: Sede
della Sapienza. Seppur tale area
sia esterna riguardo al perimetro di clausura, ad esso però è strettamente
congiunta per mezzo di un “linguaggio” sottile, riecheggiante in nuove forme il
percorso simbolico del chiostro medievale, –
l’hortus conclusus - che
racchiude nei versi della verzura -intensa
e viva flora- il fervido sguardo verso la lucentezza dell’originario creato
voluto da Dio. Il giardino armoniosamente curato, dove gli alberi fruttiferi
dialogano con i fiori, effigia la sublime abbondanza, intesa come dono
spirituale, del paradiso terrestre, suggellato dall’albero della vita: ”Produsse il Signore Dio della terra ogni
albero bello a vedersi … inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso …”
(Genesi, cap. 2, vers. 10). Quanto contenuto in esso rappresenta quindi una
peculiare iconografia, in cui la rosa -inflorescenza predominante nella
risistemazione settecentesca - segno della purezza massima (cui il
rosso colore in epoca medioevale indica anche il sangue versato da Gesù Cristo
sulla croce) e dell’amore celeste che attraverso la Vergine, rosa candida,
s’incarna per percorrere la storia umana. La rosa quindi considerata regina dei
fiori si tramuta, sin dai primi secoli del Cristianesimo, in emblema dell’unicità
della Madre del Salvatore, tutta “Rosa
mistica” come, infatti, declama un verso tratto dalle Litanie a lei
dedicate. La lucentezza della sua purità -“Santa
Vergine delle vergini”- è declamata dunque da questo fiore, il quale
attesta perciò la verginità in stricto
sensu, che pur in questo spazio aperto e ordinatamente definito (separato dal
chiostro, dove nella loro pienezza si enunciano, in differenti sottili segni,
il percorso salvifico umano e l’illimitatezza dell’azione cosmica divina) viene
compreso, acciò sia suggerito il fermo, eterno e sicuro approdo che conduce gli
uomini alla salvezza e allo spirituale splendore, giacché figli di Dio. Si riverberano
dunque in questo giardino alcune sembianze simboliche, capaci di generare
un’intima, sagace e profonda consapevolezza, elementi caratterizzanti che travalicano
l’immediato aspetto visibile, cogliendone invece la “difficoltosa” recondita espressione,
che afferra la realtà di quanto, in “superficie”, appare celato. Il simbolo perciò
inteso come concreta chiave, per accedere a quell’infinito vertice spirituale, altrimenti
non rappresentabile, attraverso una continua ardua ricerca interiore, dissigillando
una via mediata e viva, non sistematicamente indagabile ma percorribile, in cui
s’inserisce la consapevolezza del piano salvifico: ” per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che
conduce alla perdizione e molti son quelli che entrano per essa; mentre stretta
è la porta e angusta è la via che conduce alla vita e pochi son quelli che la
trovano”. (Vangelo di Matteo, cap. 7, verss. 12 -14).
In
questo spazio descritto, se fosse possibile appressarsi a quel 1731, si
avvertirebbe anche lo spirare di un fresco e lieve respiro tra ridenti rose,
tra cangianti colori e tra ombrose siepi colorate di smeraldo; dagli alti rami
scenderebbe un gradevole prolungato cinguettio, che dintorno offrirebbe letizia,
così forte da allontanare ogni corrente di tristizia, di perfidia, in una pace
non caduca.
Quanto
finora abbiamo osservato, introduce l’edicola dedicata alla Vergine, che appare
sullo spoglio muro destro, rispetto alla facciata della Chiesa (fig. 2). In
apparenza essa sembra proporre il consueto manufatto devozionale, testimonianza
di quella “semplice e umile” (però costante) fede, la quale per molti (e da
molti) secoli è diffusa in Roma; pare perciò “normale” che essa sia coperta da
una coltre di abituale indifferenza, travolta da eminenti presenze storiche - artistiche
del Complesso monumentale che la ospita. Fendere e lacerare lo spesso velame
che la ammanta, tanto fitto da impedirne la conoscenza, costituisce l’intento
di questa parte dello scritto, per restituirla alla ricezione quasi poetica dei
“passanti”, per consegnarla all’ammirazione di questi in una prospettiva di piccola
ma eloquente opera d’arte del XVIII secolo.
Realizzata
in stucco e in terracotta, probabilmente durante il rifacimento del giardino, è
annunciata da un elaborato timpano spezzato con cornice arretrata nella parte
centrale, motivo di plastica architettonica ripresa da quella imperiale romana
(epoca di Tiberio) e molto “interpretata” dagli inizi del XVI sec. in poi e
ancora in auge nel Settecento. Al centro, di questa sezione triangolare, sta un
volto maschile barbuto, di profonda espressività, avvolto da un nimbo
stilizzato da cui discendono dei corposi aloni (di luce): indubbiamente
rappresenta, come in molti maggiori lavori scultorei e pittorici, l’Eterno
Padre. La sottostante piana modanatura è pronunciata, nella sua forma
allungata, da un leggero risalto di rimandi floreali su cui spiccano due
corolle laterali, simboli della benevolenza di Dio e, in quanto segni solari,
della Sua luce eterna. Due lisce lesene, dagli ornati capitelli, da cui sporgono
due piccoli paffuti volti di cherubini dalle ali appena pronunciate,
incorniciano la pseudo nicchia ove la scena è svolta, racchiudendola con il
loro raccordarsi con la fascia inferiore. Si evidenzia un palese contrasto tra
la parte superiore, notevolmente decorata e mossa, e quella restante priva di
qualsiasi abbellimento, come per gradualmente spingere l’osservatore a volgere
il suo sguardo verso l’ampia e dinamica azione raffigurata. Nella calotta della
“nicchia” l’ornato descrive, al pari delle grandi esecuzioni artistiche, una
valva di conchiglia, la quale vuole soverchiare il mero carattere decorativo architettonico
per declamare ciò che essa rappresenta: una via dell’esperienza spirituale. Percepita
talvolta come immagine del sepolcro dove giace l’umana spoglia, la conchiglia attira
l’attenzione di Efrem il Siriaco (306, circa - 373) dottore della Chiesa,
appellato "la cetra dello Spirito Santo" grazie alla sua abilità
poetica che magnificamente plasma, ai fini teologici, riuscite immagini,
sorprendenti e incisive affermazioni. Egli ritiene che la conchiglia, secondo quanto si considera nell’antichità, sia
fecondata dalla luce celeste, escludendo quindi la presenza della fecondazione
maschile; così da tale presupposto si materializza il paragone -stessa guisa, incarnationis causa- con il concepimento
verginale di Maria, mediante lo Spirito Santo: ” Fu proprio lei, Maria, che vidi là, la sua pura concezione. Fu poi … il
Figlio nel suo seno, come la nube, che lo portò. E il simbolo del cielo, da cui
rifulse una luminosità preziosa. Vidi in essa i trofei del Figlio, delle sue
vittorie e delle sue incoronazioni. Vidi i suoi mezzi di soccorso coi suoi
benefici, sia quelli invisibili sia quelli visibili” (dagli “Inni sulla fede”). Il pensiero, di
questo personaggio cardine della teologia, specifica quindi che il mistero
della redenzione umana è compiuto soltanto dal Messia, incarnato nel seno della
Vergine, senza la quale non poteva avvenire l’assunzione reale del corpo fisico
di Cristo, immagine perfettissima di Dio.
S’intuisce
che tale piccola opera, posando lo sguardo sui primi brani, vuol imprimere
particolare dignità a una scena altrimenti ispirata a devozione, eseguita
perciò con un “ritmo” con il quale sembra abilmente descrivere, nella sua
interezza, la rivelazione dell’amore divino, che dal Calvario si diffonde per
l’orbe. Trasposizione per meglio dire “colta” di accenti di quotidiana
religiosità, come dimostra la spoglia croce issata sulla cima del monte, che
richiama un tratto illustrativo contenuto in talune copie, pittoriche, del telo
sindonico, eseguite segnatamente tra la fine del XVII e la metà del XVIII
secolo. Invero, l’autore dell’edicola in S. Cosimato “recupera” l’immagine del
terribile strumento di pena -su cui fu inchiodato Cristo- raffigurandolo al
centro della scena, mantenendo quasi ancorate alle estremità dei bracci, che
compongono la croce, la lancia (secondo il Vangelo di Giovanni, cap. 20, vers.
34: uno dei soldati gli forò il costato
con una lancia e subito ne uscì sangue e acqua) e la canna con la spugna (ancora
secondo il Vangelo di Giovanni, che in dettaglio riporta al cap. 19, verss. 29
- 30: i soldati … posta in cima a un ramo
d’issopo una spugna piena di … gliela accostarono in bocca), quest’ultima riprodotta
con indubbia minuziosaggine tanto da ben scorgervi i piccolissimi fori, gli
stessi posati sulle labbra di Gesù Cristo prima che Egli spirasse. Questa
raffigurazione si mantiene così diffusa che, invertendo generalmente la
posizione della lancia e della spongia,
introducendo un ramo di ulivo e di palma con altri elementi, diviene altresì lo
stemma della Congregazione del SS. Salvatore fondata nel 1732 da Alfonso de’
Liguori, approvata nel 1749 da Benedetto XIV come Congregazione del SS.
Redentore (conosciuta quale Comunità Redentorista). Tale vicenda di storia
ecclesiastica sembra inquadrare, con dati certi, il periodo ascrivibile alla
realizzazione dell’edicola in argomento, eseguita in un contesto conventuale appartenente
all’Ordine delle Clarisse.
La
vivida simbolica presa della visione iconica, proclamata dalla valva, come abbiamo
considerato, viene confermata mediante altre due figure arboree: la palma nel
lato sinistro e il cipresso in quello destro. Se la palma “della vittoria”
caratterizza il martirio –in questo caso del Messia, in quanto vincitore sulla
morte e quindi per Suo merito sono aperte le porte celesti all’umanità- nondimeno
rappresenta la giustizia (“Il giusto
fiorirà come la palma”, Salmo cap. 92, vers. 12) e la fertilità spirituale
che elargisce molti buoni frutti. Come allora non rammentare le parole del
Messia, espresse nell’immagine: “ogni
albero buono produce frutti buoni … un albero buono non può far frutti cattivi
…” (Vangelo di Matteo, cap. 7, verss. 16 – 18). Attraverso la fede perciò
avviene l’incontro tra il fedele e Dio, per mezzo della resurrezione del
Salvatore, l’accoglimento dell’invisibile negli occhi umani, la pulsante
fattiva conoscenza della donazione “di sé” nel totale amore che affronta il
mondo e vuole “vincerlo”: “… abbiate pace
in me. Nel mondo avrete tribolazione ma fatevi animo, io ho vinto il mondo”
(Vangelo di Giovanni, cap. 16, vers. 33).
La palma dunque, dai zuccherini frutti riuniti a grappolo, dall’albume
usato quale avorio vegetale, dalle foglie piegate per lavori d’intreccio e così
via; esemplificativo tema che identifica Cristo, bene supremo, il quale ha offerto
tutto se stesso e fortemente esorta i suoi seguaci alla medesima condotta: da
qui l’azione nella grazia cui il cristiano si volge. Il motivo riposto e
allusivo si completa con il cipresso nella forma disposta a piramide; sempre
verdeggiante, dal graduale accrescimento e dall’età che varca i secoli,
fornisce un legname compatto, solido e resistente alla corrosione dovuta agli
agenti atmosferici e agli insetti; utilizzato per le costruzioni, i suoi
galbuli –sorta di corpi legnosi- possiedono proprietà medicinali,
caratteristica confermata dai suoi ramoscelli giovani, impiegati per distillare
un olio essenziale medicamentoso. La sua armoniosa e dolce struttura si addensa
nelle scure ma serene foglie, che il ventoso soffio non flette se non
lievemente in su per la cima. Il
fiammeggiante aspetto della sua chioma alta, morbidamente eretta, soavemente
sculturale, rappresenta la protezione del fuoco divino, che illumina e scalda;
il suo tenace legno sembra sfidare la morte, dunque concreta il segno di
longevità e in tale profilo è annoverato tra gli alberi del paradiso, segnando
la speranza approdante in certezza nella vita eterna, promessa a chi, menando
la sua esistenza secondo la via tracciata da Cristo, –varcando quella “ porta stretta”- al cui termine nel suo
spirito si “addormenta”.
“A te stessa
una spada trafiggerà l’anima” (Vangelo di Luca, cap. 2, vers. 35): questo è
il vaticinio rivolto alla Vergine da Simeone, “persona giusta e pia”, pronunciato
a chiusura del cantico con il quale innalza la sua lode al Salvatore (nell’episodio
che narra la presentazione del Bambino Gesù, da poco tempo nato, al Tempio di
Gerusalemme), alla sua azione futura di giustizia “causa di rovina” per
gli empi, “di resurrezione” per la moltitudine, che a lui si assegna
ascoltandone e praticandone gli insegnamenti.
Una lettura “tradizionale”
consegnerebbe, a Maria, soltanto il suo strazio a venire, che la percuoterà ai
piedi della croce, laddove invece, quell’arma appuntita profetizzata, avrà forza
di svelare la purezza o la corruzione “di molti cuori” e a causa di tale
agire sorgerà il martirio sul Calvario, da cui s’innalzerà la resurrezione di
Cristo prima e, dei giusti in Cristo, alla fine dei tempi. Questo concetto
teologico, per quanto è raffigurato, viene compiutamente espresso dai
personaggi raffigurati nell’edicola. Due putti, accostati alla Vergine,
“dipingono” il dolorosissimo sentimento scaturito dalle sofferenze mortali,
patite da Cristo sulla croce però ormai priva del suo martoriato corpo:
l’orrenda pena è quindi un evento già collocato nel passato, seppur vivo e
costante nella sua reiterazione salvifica. I piccoli “sottointesi” cherubini
(mancanti di un benché minimo accenno alare) sono pervasi dal forte patimento
“affettivo”, impresso dalla vista di quelle acute sevizie, di quella tormentosa
morte. Il cordoglio, lo struggimento è appalesato con l’abbandonarsi, delle
tenere membra, allo stretto abbraccio della spada (dall’impugnatura molto
stilizzata, in pieno accento Rococò), nel celato ma decifrabile pianto
(l’avambraccio che copre il volto), che risalta quella spinosa corona serrata
nella mano.
Di tutta la
narrazione descritta, il fulcro ne nobilita l’essenza sino a lambire una luminosità
artistica, quasi che ci si trovasse innanzi a un bassorilievo, il quale seppur esposto
nei limiti di un’esteriore semplicità, ne evita brillantemente le mediocri
caratteristiche, –confermando quanto mirato finora- plasmando al contrario un sotteso
lieve lirismo, che proprio dal nucleo innalza la sua lodevole dignità di
“opera”. Qui, l’abile mano dello sconosciuto autore, forse maggiormente
traduce, in immagine, i dettati della particolare committenza conventuale, aderendo
a un linguaggio di fine effetto teologale. La Vergine è ritratta in un
atteggiamento di delicata dignità; la sua anima è già stata percossa con atroce
lacerazione, del suo amore materno, per l’orribile morte del Cristo; il suo
accennato sguardo esprime una tenerezza dai toni quasi
poetici; la sua pensosa, mesta espressione rivela un’attesa altra, una
silenziosa celebrazione della gloria divina, che trasforma la croce –vuota- da emblema
patibolare a speranza di vita eterna, compiuta dal Messia proprio attraverso
quel legno. Croce dunque accettata da Maria, mistero insondabile che lei
accoglie con sconfinata fede, come testimonia il suo quieto contegno. L’amore di
madre pur è risaltato dalla posa delle braccia e delle mani, che pongono
chiarità sul suo virgineo grembo, tempio intatto da dove è iniziata l’azione
salvifica divina. L’insieme degli elementi presenti nell’edicola dona, in versi
originali, un tono generale appropriato, certamente a fini devozionali, ma
privo di sciatteria compositiva.
Si
è fatto cenno in precedenza circa la facciata della Chiesa, che si erge in
fondo allo spazio pieno del giardino. L’intero edificio cultuale, oggi visibile,
è realizzato, secondo alcune indagini che ne individuano diverse fasi
costruttive, modificando gran parte dell’impianto esistente. In sostanza, una corposa
rielaborazione edilizia sarebbe stata posta in atto su sezioni dei precedenti ambienti,
non demolendo però l’intera pianta chiesastica, come dimostrerebbe altresì il
parziale intervento su parte dell’abside. Questo assunto contrasta però l’altra
tesi, che formula invece la piena ricostruzione della Chiesa, come attesterebbe
l’inscrizione posta sull’architrave del portale: ” SYXTUS IIII PON MAX FUNDAVIT ANNO IUBILEI MCCCCLXXV” e come
testimonierebbe altresì il completo rifacimento dell’antica aula absidata.
Tale
intervento viene generalmente fissato nell’ambito del programma “edile”, voluto
da Sisto IV (1471 - 1484), posto in atto soltanto in vista dell’evento giubilare
del 1475; questo modo di tradurre un preciso fatto sembra comprimere la realtà
storica, che al contrario palesa il Pontefice come autore di un’ampia azione, rivolta
a promuovere nella “Città Eterna” il concetto di supremazia del papa. L’intento
di più ampio respiro si deve esplicare perciò attraverso un’esposta
cultura munifica, favorendo la spessa presenza di artisti, di letterati, in un
clima alquanto nuovo rispetto agli antecedenti pontificati. Da siffatto disegno
deriva il vasto programma concretato per mezzo dell’arte e della cultura, acute
capacità umane esplicitate in una temperie molto organizzata e di carattere
mecenatesco, ove l’atto di ristrutturare assume foggia di rifacimento
urbanistico con connotazione ecclesiastica, soprattutto in alcuni luoghi dal
carattere privilegiato. Si rivela con evidenza, in tal maniera, l’insito aspetto
del fervore edilizio sviluppatosi per lo più –ma non esclusivamente- intorno a
quel giubileo, il primo con cadenza venticinquennale, secondo le intenzioni di
Paolo II (con la bolla Ineffabili Providentia,
19 aprile 1470) e
confermato da Sisto IV nella bolla Salvator
Noster del 26 marzo 1472.
Oltre
a quanto sinora illustrato, tra i motivi da ricercare riguardo ai lavori
sistini effettuati nel Complesso conventuale di S. Cosimato, -i quali includono
altresì la creazione di un altro chiostro e l’innalzamento di un nuovo
campanile- non si trascurano quelli che conducono alla presenza, nel monastero,
di una delle cinque sorelle del papa: Franchetta della Rovere, clarissa (morirà
nel 1480).
Suora di clausura quindi appartenente
all’Ordine delle Clarisse, comunità femminile francescana, a cui è affidato il Convento
trasteverino nel 1234 da Gregorio IX, prima ancora
dell’approvazione della Regola (1253), che S. Francesco avrebbe, secondo alcune
interpretazioni storiche, già redatto nel 1224 indicandola come “regula delle povere donne”, ripercorrendo quella dei suoi frati minori.
Tuttavia si ritiene che S. Chiara (da cui discende il sostantivo “clarissa”,
dalla forma latina del suo nome, Clara) abbia contribuito in maniera
determinate alla definitiva stesura della Regola medesima (1251-1252).
Il
“nostro” monastero, nel corso dei secoli, sarà la “casa” di molte Clarisse appartenenti
a famiglie nobiliari e potenti (Orsini, Frangipane, Savelli e così via), come conferma
la presenza di Franchetta, sorella del papa regnante. Inoltre, come non
rammentare il precedente percorso religioso ed ecclesiastico di Sisto IV, al
secolo Francesco della Rovere, formatosi all’interno dell'Ordine francescano
dei Frati Minori Conventuali, divenendone ministro generale nel 1464.
Questi ultimi ragionamenti argomentativi potrebbero (anche) aver determinato,
come presumibile, l’avvio dei lavori di restauro e di ampliamento del Complesso,
evidentemente all’epoca bisognoso di opere di riattamento.
“Sisto IV rifé San
Chosme Damiano el suo bel monasterio poi rasetta che di fama e di chostumi el
più soprano in Trasteveri posto e chiamato dal volgo el monasterio di San
Cosimato”. Questa frase tratta dalle “Vite di tutti e pontefici” (1505), composizione di Giuliano Dati –
fecondo letterato, all’epoca rettore della Chiesa dei SS. Silvestro e Dorotea
in Trastevere e in seguito ordinato vescovo- appropriatamente esemplifica
l’operato del Pontefice nei confronti di questo sito. Il citato riferimento
alla denominazione del convento altresì rimanda, indirettamente, alle sue
origini. Difatti, il monastero viene fondato,
nella prima metà del X secolo (fra il 936 e il 947), dal nobile Benedetto
Campanino sulla sua proprietà privata ed è retto dai monaci Benedettini
–divenendo un soggetto di solida floridezza economica- sino al 1234, anno in
cui, come sappiamo, subentrano le suore Clarisse. Il complesso religioso
indicato, nel corso del tempo, “Abbatia
SS. Cosmae et Damiani in Mica Aurea”, è titolato ai gemelli, Cosma e
Damiano, molto cari alla tradizione agiografica, nati in Arabia. Essi, medici, dedicano
le proprie energie alla cura dei malati, attività svolta senza compenso, come
indica il loro epiteto anàrgiri (termine greco, “senza denaro”), perché volta a
concretare, per mezzo dell’arte medica, un’efficace opera di evangelizzazione,
così intensa da essere martirizzati durante l’imperio di Diocleziano (nel 303,
come vuole la voce tradizionale). Il loro culto, diffuso sin dal V secolo, è
attestato anche a Roma già dal VI, ove, caso unico, avviene la
corruzione dei loro due nomi trasformandosi in uno -S. Cosimato- almeno dalla
prima metà del XIII secolo.
Ancora però la figura di Sisto IV s’impone su
questa dissertazione, riannodandosi proprio a un particolare della Chiesa, vale
a dire il portale marmoreo (fig. 3), realizzato da Andrea Bregno (1418 - 1503) ovvero dalla sua
talentuosa bottega, che ne ripete il raffinatissimo disegno, come dimostra
l’elaborata ornamentazione dai pieni significati simbolici.
Il
Bregno, nato a Righeggia, piccola frazione di Osteno, nel Cosmasco, rappresenta
uno dei “temi” più dibattuti dagli storici dell’arte, poiché alcuni suoi
lavori, soprattutto in ambito architettonico, sono scarsamente documentati e
dunque le diverse attribuzioni scaturiscono da giudizi derivati da
difficoltose indagini filologiche. Egli influenza il giovane Michelangelo,
giunto per la prima volta a Roma intorno al 1498, il quale ammira la preziosa
collezione esposta nella dimora sita sul Quirinale, del già famoso artista
lombardo, formata da reperti dell’antichità. Li accomuna quindi
quell’irrefrenabile creativo impeto che, nell’antico, trova il primario impeto dal
quale diparte quella, nuova, forma artistica caratterizzante il Rinascimento e
che nel Buonarroti trova fulgido apice. Il maestro lombardo quindi rivela, al
giovane talento toscano, un’azione artistica che in un certo qual modo si
effonde nella prima vena creativa di quest’ultimo, come appalesa il suo
completamento dell’altare esposto nella Cappella Piccolomini del Duomo di Siena,
realizzato dal Bregno fra il 1481 e il 1485, ripreso e completato proprio dal
Buonarroti tra il 1501 e il 1504, senza introdurre sostanziali modifiche al
progetto primario. Come ancora, a questo proposito, non individuare delle
assonanze tra la figura della Vergine (Madonna
col Bambino) del Bregno, conservata
nella Chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Osteno (eseguita a Roma intorno al 1464) e
quella di Michelangelo, appellata la “Madonna
di Bruges” (opera realizzata, anch’essa
a Roma, iniziata probabilmente nel 1498 e terminata nel 1505, circa), sebbene il
Buonarroti conduca il tema scultorio in un’aura che volge a superare
l’iconografica staticità, che pur connota la “sua” Madre del piccolo Messia, in
parte riecheggiando altresì la Vergine
col Bambino di Donatello (1450 circa,
Basilica di S. Antonio a Padova).
Andrea Bregno esprime (e rappresenta nei
successivi periodi) dunque apici artistici tra quelli, acuti, propri della
strategia culturale sistina. Il suo linguaggio reso attraverso un rielaborato
classicismo, si manifesta assai raffinato, dove ogni minimo
dettaglio è realizzato con rilevante perfezione tecnica. Egli si affranca da
una generale impostazione linearistica, ormai già all’epoca arcaica, inserendo
spesso nei suoi lavori elementi dal preciso verso simbolico, scaturito dalla
più capace trasmissione di penetranti modelli confluiti dalle e nelle scansioni
temporali, suggellandovi perciò dettagli privi della sola natura ornamentale di
superficie, pur se caratterizzati da un visibile finissimo gusto decorativo. Accresce
di tale artista la fama a Roma, ove l’attività della sua bottega si palesa alquanto
copiosa, soprattutto con l'elezione al soglio pontificio del cardinale della
Rovere. Dell’alta considerazione nutrita nei suoi confronti da altrettanto
celebri nomi, ne dettano testimonianza sia il celebre umanista Bartolomeo
Sacchi, più noto come il Platina, che lo compara a Policleto (il
Vecchio, l’eminente scultore dell’antica Grecia, molto
spesso paragonato a Fidia), sia il Perugino (Pietro
Vannucci, così detto), che lo raffigura tra i
personaggi del suo magnifico affresco “Consegna delle chiavi a S. Pietro” (1481), che si ammira nella
Cappella Sistina (dove il “nostro” artista lombardo compie, insieme a Mino da
Fiesole e a Giovanni Dalmata, la transenna e la cantoria). La sola
enunciazione di questi tre autori -Bregno, Platina, Perugino- rappresenta i fulgenti
e fondamentali tratti di quel vivido ambiente artistico e culturale, pulsante
nella Roma sistina, come in precedenza si è detto.
Ritornando
sul portale lapideo inserito nel prospetto della Chiesa di S. Cosimato, lo
stesso offre agli occhi dell’attento visitatore molti motivi propri del
registro del Bregno, in virtù dell’impianto generale, in un contesto certamente
non monumentale o, a una vista frettolosa, non di “forte presa”. Invero, gli
elementi decorativi elaborati in questo ristretto spazio architettonico
mirabilmente si delineano e per tale ragione acquisiscono
una
concreta, elegante, grandezza, pur nelle ridotte dimensioni
in
cui sono concepiti.
Dello studio iconologico di questa opera
(fig. 3), dalle dimensioni quindi ridotte rispetto ad altre, si può condensare
ciò che della spiritualità, alcune immagini, vogliono afferrare per mezzo di un
linguaggio artistico rinnovato ma strettamente connesso con espressioni di
precedenti epoche.
Una
cintura, formata da tre linee rette, racchiude un lavoro riccamente composto,
cui i rilievi hanno forma e significato attraverso quattro elaborati profili
(due per lato), che accolgono figure diverse, attraverso le quali alludono
all’albero con i suoi rami, differentemente, stesi. Annuncio della grazia
divina, che germoglia sulla terra per innalzare il fedele sino alla luce
celeste, per mezzo della saggezza donata dallo Spirito Santo. Questo asserto
simbolico è reiterato dalle immagini comprese nell’assetto interno dell’opera:
le brocca (accoglimento dello Spirito di Dio come acqua salvifica), il
candelabro (albero della luce divina), la ghirlanda (la vittoria sulle
tenebre), il fiore (accoglimento dei doni divini), l’uccello (distacco dal
mondo, vicinanza a Dio), il vaso (da grembo della Terra a vaso spirituale), la
pigna (“infiorescenza” formata nel pino e nell’abete, alberi sempreverdi, che
allude all’immortalità, all’eternità), la mela, incisa nel coronamento (il
peccato che Cristo materialmente prende su di sé), la pera, anch’essa
raffigurata nel fastigio (figurazione femminile dall’ampio bacino, in cui la
discendenza di Eva è colta nel fecondo campo della vera conversione). I motivi
che, soprattutto, rappresentati in entrambe le parti laterali superiori, per
come composti, rimandano maggiormente a un’interpretazione dell’albero cosmico,
il quale in alto si protende volgendo i rami in basso, in
guisa di asse posta al
centro del cosmo, che oltrepassa le profondità e le superfici terrestri e da
esse conduce al cielo, come entità che unisce queste due sfere. Oltre a quanto
descritto si notano alcuni tipici ornamenti raffigurati, ad esempio, dai nastri
svolazzanti, che ripropongono la ricchezza iconografica; in aggiunta si
scorgono i “riferimenti
medici”dei due martiri, SS. Cosma e Damiano, posti ai lati superiori estremi,
individuando in quello sinistro uno strumento appuntito, sorta di bisturi.
La
raffinatissima mano del Bregno –o della sua bottega che egli conduce- viene
confermata da questo lavoro, eseguito con pienezza di brio e capacissima minuzia,
caratteristiche congiunte alla sua notevole perfezione tecnica.
Un timpano ad arco di
pregevole fattura conclude la composizione (fig. 4), nel quale un ormai,
fievole dipinto raffigura la “Madonna con
il Bambino e due angeli” (1481, circa), attribuito a Pier Matteo d’Amelia
(1442/1448 - ?), all’epoca molto attivo a Roma, autore di dipinti di buona
impostazione plastica, sebbene non scevra di un linearismo interpretato però
con intensità. Gli si attribuisce, ad esempio, il
disegno originario (che avrebbe anche eseguito) ornamentale della volta della
Cappella Sistina -eliminato dai successivi fulgenti affreschi di Michelangelo-
costituito da cornici e fregi architettonici, delimitanti un cielo stellato
(secondo un risuono medievale) su cui si pronunciano due stemmi di Sisto
IV.
La
lettura iconologica desunta – quasi un riferimento a una peculiare esegesi, che
approda “dentro” il contenuto dell’opera figurativa- può tentare una
decodifica, un possibile significato di quanto si cela nei notevoli intagli. La
luce divina rischiarante l’anima dell’uomo, da questi accolta nell’imitazione
di Cristo incarnatosi attraverso la Vergine, -seno materno e sommo grembo
spirituale- guida sino a raggiungere la vita eterna dopo il cammino terreno,
ove una concreta, interiore, visione spirituale ne accompagna i passi, talvolta
incerti, talora perigliosi ma non disgiunti dalla sommità dei cieli, da dove
agiscono gli atti dei Santi e l’intercessione suprema di Maria, posta dalla
Trinità -cui la figura geometrica del triangolo simboleggia- come supremo
tempio dello Spirito.
La vasca termale romana di granito grigio
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L’edicola dedicata alla Vergine
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Il portale
marmoreo
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