Lorenzo Lotto nasce a Venezia nel 1480 (morirà a
Loreto nel 1556); giunge a Roma alla fine del 1508, dopo aver eseguito notevoli
lavori a Treviso e a Recanati. Nella “Città Eterna” viene chiamato nell’ambito
dei cantieri voluti da papa Giulio II (1503–1513). Esegue affreschi dunque in
Vaticano nella “Stanza dell’udienza” (1509–1510, circa), l’ambiente originariamente
ideato per le udienze private del pontefice, oggi chiamato “Stanza di Eliodoro”.
Il genio di Raffaello però sopravanza la capacità plastica del pittore
veneziano, come quella di altri già impiegati nell’opera decorativa di quello
spazio (Cesare da Sesto, Luca Signorelli, Bartolomeo Suardi detto il Bramantino);
infatti, il papa rapidamente assegnerà, all’Urbinate, la decorazione
dell'intera impresa durante la sua decorazione della “Stanza della Signatura”
(1508–1511, circa), non indugiando a voler disfare quanto già eseguito dai
precedenti artisti, interrompendone quindi l’opera. Attualmente però sono
attribuite alcune sezioni, nelle arcate e nelle grottesche a quei maestri -Bramantino,
Signorelli e per l’appunto il Lotto- antecedenti alla mano raffaelliana.
Con tale post voglio percorrere il sentimento
che anima la ritrattistica del “nostro Lorenzo”, tralasciando perciò gli altri
aspetti della sua magnifica arte, per la quale è altresì appellato “excellente
pittor”.
Arte del ritratto, la sua, che esplicita una qualità
elevata, rappresentando ciò che l’anima umana conserva, nutre in sé attraverso
una singolare abilità di espressione introspettiva. Egli sa cogliere quella
particolare vibrazione psicologica dell’uomo, il quale dalla profondità del suo
sentire, per mezzo dell’atto pittorico, trascende il limite temporale in cui
egli agisce, per consegnare il principio attivo delle sue facoltà interiori
agli osservatori di epoche successive alla propria. Da questo principio
scaturisce l’immagine che, l’insieme dei ritratti, nella loro ecletticità raffigurano
l’animo dell’autore.
La sua ispirazione certamente assume diverse fasi,
attestate dalla sua cifra ma permane, sempre, una sincera purezza che
costituisce l’elemento fondamentale di ogni dipinto e conseguentemente -esteriorizzando
la sua consapevole profondità d’animo- di ogni uomo, divenendo, in tal modo,
respiro di quei differenti momenti in cui la vita si piega o si illumina, sino
a richiamare perciò, in quei tratti disegnati, la sua esistenza.
Sorta di estensione autobiografica mai evidente,
eppure implicitamente pronunciata, privando le figure di qualsiasi gigantismo
intellettuale, al contrario tramite la loro naturalezza rendono palpabile la
loro umanità, riuscendo in questo modo a travalicare quindi la contingenza del
loro tempo. Capacità di saper comprendere, dallo sguardo di chi osserva, il
soffuso senso di quel “appena pronunciato”, di quel apparente “non detto”, che
invece si evidenzia qualora il guardare si trasforma in vedere, pertanto acume
nel superare l’apparenza affinché l’anima del personaggio si sveli; sorta d’invocazione
a condividere con lui “affetto” (moto dell’animo) contrapposto all’asettica
indagine intellettuale.
Superfluo pertanto si manifesta, in questo peculiare
ambito, dissertare circa i contatti “di stile” con altri pittori o influenze da
“scuole” o paragoni con altri illustri nomi. Deve essere risaltata invece la
sua abilità -non mera tecnica- di scandagliare i numerosi recessi psicologici
dell’uomo, modellando la figura ritratta con dettagli aderenti al carattere
rappresentato, dunque l’esposizione figurata deve contenere precisione dei
tratti somatici, degli abiti, degli arredi, del circostante contesto. In tale fecondo
divenire plastico s’innesta, sovrana, la tavolozza la quale, con cangianti
colori, imprime la personalità dell’effigiato -la giovinezza espressa con
brillante cromia, la vecchiezza ritratta in dissolventi commistioni di scurità-
combinandosi con la luce. Quest’ultima non cede a una cristallizzata
descrizione bensì, lambendo un’idealizzazione, rivela un significato vivo
metamorfosando una diafana aria -per come appare in superficie- in soffuso
colore che dona linguaggio poetico alle figure, proiettandovi tenui ombre quali
incontri di sentimenti, disserrati da una simbolica tenerezza che non confina
il reale, laddove esso sia anima.
Proprio l’anima, che vive tra i profondi marosi
dell’esistenza, si erge intensa con movenze di partitura musicale, diversificata
da improvvise tonalità calorose e quasi sature come palesano alcuni suoi
azzurri, gialli, celesti, viola, rossi e così via. Subitanea emozione di un
artista, che in sé accoglie gli accadimenti generati dinanzi al suo vivere, che
la sua mente apprende sviluppandone il “senso” nella sua attitudine compositiva.
Nessuna disperazione vi compare ma l’espressività, così in e da lui palesata,
possiede versi ancor oggi attuali.
L’ispirato equilibrio delle pose, la squisitezza dei
gesti, la densa spiritualità -nelle sue plurime “sagome”- effusa, non declamano
alcuna epicità sottraendosi a un, pur sempre incombente, esacerbamento
intellettuale, che giustappunto rinunciando a qualsiasi sfolgorio, ostentante
una formale pregevolezza di stile, viene così allontanato dal Lotto. Questa sua
singolarità si estende altresì negli ampi dipinti, dove la sacralità del tema
(pale d’altare) viene esposta rispondente al suo desiderio, di rimare l’anima
dei committenti inseriti nel quadro, accarezzati perciò dalla dolcezza, o
confitti nel dolore, o presi dalla malinconia, o poggiati sulla quiete, permeandone
in tal maniera la scena rappresentata.
Se il suo dipingere sostanzia un’esposizione di
elementi multiformi, componendo una sorta di luminosa sintesi, pur non
soggiorna in un accademico fare ma, all’opposto di tale algida capacità, dimora
nelle percezioni da cui si estrinseca la sua arte, costante movimento verso
quel nobile patrimonio, costituto dall’intimo sentimento umano, che ne genera
il fondamento.
Di tale compiuta efficace espressione, è pregno il Ritratto di gentiluomo conservato presso la
Galleria Borghese, cui nei depositi è, attualmente, posta la tavola della Vergine
col Bambino tra i Ss. Flaviano e Onofrio, altro lavoro realizzato dal
Lotto.
Riguardo specificatamente a tale Galleria, rammento
i miei post: la Danae del Correggio (24 maggio 2016); il Ritratto
d’uomo di Antonello da Messina (17 ottobre 2017).
Il Ritratto di gentiluomo dunque, esposto nella
Sala delle Baccanti, eseguito intorno al 1535 raffigurerebbe il principe
dell’Epiro, Mercurio Bura, divenuto in seguito comandante della Repubblica di
Venezia, stanziatosi quindi a Treviso con la sua corte e i suoi uomini d’arme. Il
gentiluomo è rappresentato all’interno di un ambiente interno, in un tratto però
aperto su un paesaggio, sul cui sfondo è raccolta una città, che alluderebbe
proprio a quella città veneta. La minutissima scena cavalleresca richiamerebbe
l’episodio di S. Giorgio contro il drago, Santo del quale il Bura, secondo
notizie storiche, è particolarmente devoto. La sua esistenza è marcata da
tragedie, fatti luttuosi come la morte delle sue due mogli e di due suoi
figli.
L’identificazione del personaggio, ad ogni modo, non
appare basilare rispetto alla portata “dell’affetto” vibrante nell’opera.
L’uomo di mezza età ritrae un senso di densa
commozione, un’invulnerabile tristezza da cui egli guarda l’osservatore,
chiamato a condividerne l’acuta infelicità, l’inarrestabile dolore. L’abito
nero allude, forse, a una vedovanza, come attesterebbe la mano sinistra -tenuta
sul fianco- con i due anelli, probabilmente sponsali, calzati al mignolo e
all’indice; la mano destra – anch’essa impreziosita da un anello gentilizio, in
questo caso al pollice- è stesa sopra un teschio minuto, posto in una natura
morta -reale memento mori- composta di petali di rosa (dal composito
significato simbolico di morte ma anche dell’amore sopravvivente al terribile
trapasso) e di gelsomini sparsi (ancora un’allusione all’amore). Egli è fermo
dinanzi a chi l’osserva, mentre una lieve luce laterale sembra abbandonarlo; sul
volto s’imprime una tormentante melanconia, acuminata tristezza avvertita come
piena sofferenza, che evidenzia il suo atteggiamento espressivo. Una
desolazione apparentemente muta, in un tono di prostrazione psichica che priva,
a quelle silenti lacrime, il calore di un consolatore raggio. Quella folta
barba, del reclinato viso, è stata -e sarà- irrigata da quelle dolenti stille
fuoriuscite dagli occhi ed è talmente espanso il gravoso patimento che altresì
la, ritagliata, veduta comprende un cielo rannuvolato, racchiuso in sé.
Lorenzo Lotto sprigiona il colore di tale stato
emotivo, la sua implacabile asprezza dilaniante l’anima, sola nel suo silenzioso
pianto, che vorrebbe ora effluire da quel viso, ove le labbra sembrano pronte a
scandirne la cadenza. Una resa di un uomo avvezzo all’imprese guerresche,
eppure sguarnito di ogni difesa, supplichevole verso l’osservatore e del suo
mistero ne restano minimi lembi, poiché molto viene rivelato con questo loquace
silenzio.
Nel personaggio il pittore, considerato a lungo un
autoritratto, svela sé stesso, la forte mestizia, la caducità che grava sulla
vita, riducendolo a flebile figura sino a diventare un’ombra svanente.
Immagine tratta da "Google immagini"