L’opera oggetto di questo post è
collocata nella Basilica di S. Apollinare alle Terme Neroniane Alessandrine, luogo
cultuale così appellato poiché prossimo al sito termale voluto da Nerone. Edificato
tra il 60 e il 64, ma ricostruito da Alessandro Severo nel 227, occupa dunque una
vasta zona compresa tra la piazza antistante il Pantheon (piazza della Rotonda)
e corso del Rinascimento (oggi corrispondente al segmento che giunge a via S.
Giovanna d’Arco, dunque limitrofa a piazza delle Cinque Lune). Il riferimento toponomastico deriva
molto probabilmente da un documento del X secolo, dove la si menziona
chiesa non distante dall’area dell’edificio severiano: “non longe ab
ecclesia sancti Apolinaris in templum Alexandrini”.
Luogo di culto dedicato al santo che,
secondo la tradizione, accompagna S. Pietro da Antiochia a Roma e poi
consacrato vescovo di Ravenna (il primo di questa città) dallo stesso apostolo,
che pertanto gli affida l’evangelizzazione di quel territorio. L’originaria chiesa
in suo onore, eretta in Roma, è costruita tra la metà del VII e gli inizi del
VIII secolo, per poi essere riedificata, come si ipotizza, da Adriano I intorno
al 780, che altresì vi fonda accanto un monastero, accogliente alcuni monaci orientali rifugiatisi, nella “Città Eterna”,
a motivo delle persecuzioni iconoclaste avvenute nell’impero bizantino
dall’anno 726 all’anno 842. Dal 1284 vi
è attestato un collegio di canonici, ad essi affidato sino al 1573, mentre la basilica
diviene parrocchia intorno al 1562 e tale perdura fino al 1824. La sua
elevazione a titolo cardinalizio -abolito intorno al 1585 ma ristabilito nel
1935- e la conseguente residenza (XIV-XVI secc.) dei relativi porporati, nell’attiguo edificio, determina
che, soprattutto dalla seconda metà del Quattrocento alla prima metà del
Cinquecento, essi abbelliscano e arricchiscano tutto il complesso. Il titolo di basilica indubbiamente soddisfa le
condizioni, insite in tale appellativo, di antichità e di valore artistico e
religioso, con un clero appropriato a un’attività liturgica, richiedente una
maggiore solennità; in tale ambito è costante quindi la presenza di rendite cospicue,
che danno vita a preziose ornamentazioni e arredi cultuali.
Nel 1560 vi alloggia la prima scuola della
Confraternita della Dottrina Cristiana (fondata nel medesimo
anno), successivamente trasferita nella Chiesa di S. Agata in Trastevere. Nel
gennaio 1574 Gregorio XIII affida sia la basilica sia il palazzo ai Gesuiti quali
strutture del Collegio Germanico,
cui nel 1580 si congiunge quello Ungarico, costituendosi
il Collegio Germanico-Ungarico seminario
di giovani destinati alla vita ecclesiastica -nella Compagnia di Gesù- provenienti
da quelle terre, istituto che pertanto svolge le sue attività formative (sarà
in fertile unione con il Collegio Romano), per l’appunto, nell’edificio contiguo a quello basilicale. Particolare cura è riservata, in quegli ambienti, alla
musica; infatti, gli allievi, sapientemente condotti da illustri maestri di
cappella, sono molto considerati per le loro esecuzioni nel seno dei sacri riti
e nelle rappresentazioni dai temi religiosi. Tra i musici maestri lì in azione
si deve rammentare Giacomo Carissimi, del quale ho argomentato nel post del
25 settembre 2017, Giacomo Carissimi
nella definizione dell’oratorio,
sottolineandone la rimarchevole personalità artistica, tra le predominanti del XVII secolo.
I Gesuiti reggono il complesso sino al
1773, anno in cui è soppresso questo Ordine. Un decreto di Napoleone emanato
nel 1811, durante l’occupazione francese di Roma (1809-1814), vi trasferisce
l’Accademia di S. Luca, che nel 1825 viene collocata, da Leone XII, in una parte
dell’edificio della “Sapienza” -affacciato sull’attuale corso del Rinascimento-,
l’Università di Roma già antico Studium Urbis. Lo stesso pontefice assegna
quindi il Palazzo di S. Apollinare al Pontificio
Seminario Romano. Nel 1849, nel corso della brevissima parentesi riguardante
la Seconda Repubblica Romana (9 febbraio-4 luglio), all’Apollinare è allogato il
Ministero delle Finanze.
Nel 1853 Pio IX fa edificare l’ampia sala
di lettura sopra la basilica - oggi Aula Cardinal Joseph Hoffner, insigne porporato tedesco - aggiungendo all’edificio
due piani -ala del Palazzo prospettante su corso del Rinascimento- per il Seminario
Pio da lui fondato, che vi rimane sino al 1913 quando si trasferisce al Complesso
del Laterano. Tra questo anno e il 1920 si stabiliscono, all’Apollinare, i
Lazzaristi, la Congregazione della Missione voluta, nel 1625, da S.
Vincenzo de' Paoli. Essi provengono dalla loro “casa” demolita per
l’ampliamento del Palazzo di Montecitorio, sede del Parlamento Italiano. ai quali succede nel
1920, per volontà di Benedetto XV, il Pontificio
Istituto di S. Apollinare (liceo-ginnasio), che condivide l'edificio con un'altra istituzione scolastica.
In questo palazzo, in differenti momenti
della sua vicenda storica, vi hanno svolto gli studi Eugenio Pacelli (futuro
Pio XII) e Angelo Roncalli (futuro Giovanni XXIII), così come i futuri
cardinali Ugo Poletti, Agostino Casaroli, Alfons Maria Stickler, Achille
Silvestrini e altri. Da rilevare ancora che, Giuseppe Melchiorre Sarto, anch’egli
futuro pontefice (Pio X), viene consacrato vescovo di Mantova proprio nella basilica
di S. Apollinare, il 16 novembre 1884.
In stagioni più recenti vi sono state
ospitate diversi altri soggetti ecclesiastici, finché nel 1990 il complesso –ex
territorialità dello Stato della Città del Vaticano- è assegnato alla Prelatura
-cui la natura è incentrata su particolari finalità pastorali- della Santa
Croce e Opus Dei, struttura che perciò officia la basilica ed espleta nel palazzo
contiguo le attività del Pontificio Ateneo della Santa Croce, centro accademico
relativo a materie ecclesiastiche.
Luogo quindi dal copioso affluire storico e religioso, da cui l'arte si eleva con musicalità di rime incise nella mura, negli spazi, nelle plastiche partiture, che la riedificazione -voluta da Benedetto XIV- della basilica, eseguita da
Ferdinando Fuga (1741-1748), sillaba aprendosi al visitatore con la Cappella
della Vergine, piccolo tempio autonomo, rispetto alla navata unica basilicale che prospetticamente incede sino all'altare maggiore. L’affresco della Vergine, col Bambino, Regina degli Apostoli tra i Ss. Pietro e
Paolo (seconda metà sec. XV,
autore sinora ignoto) con la sua temperata solennità, espone, in modo
incisivo, l’intimo sentire dei personaggi rappresentati, testimoniando la
vivezza artistica e cultuale già manifestata dall’antica basilica, cui la nuova
ne coglie la luce per propagarla, in rinnovata temperie, verso nuove stagioni.
Il complesso (basilica-palazzo) però già
alla fine del XVI sec. si palesa, nell’insieme, in condizioni degradate e
interventi costruttivi sono realizzati in quel periodo, insufficienti però a
salvaguardarne l’effettiva consistenza strutturale, l’aulico decoro. Paolo
Marucelli (autore del progetto dell’attuale facciata di Palazzo Madama) è
l’architetto incaricato, dai Gesuiti, a riedificare quasi completamente il
palazzo, cui ne dà forma tra il 1638 e il 1642, circa (ma l’edificio sarà
ancora ricostruito dal Fuga durante i lavori della basilica), mentre nel 1690 la
stessa Compagnia di Gesù inizia ad ideare il rifacimento dell’adiacente tempio.
Sarà, come già accennato, soltanto Benedetto XIV il quale, durante una visita al
Collegio Germanico-Ungarico avvenuta il 25 luglio 1741, pronuncia, secondo una testimonianza dell’epoca, un “lungo discorso sopra la poca proprietà,
oscurità, humidità della chiesa, che per essere antichissima era veramente
miserabile … mostrò desiderio che si rifabbricasse
di nuovo, e però talmente che poco vi mancò che non la comandasse, et esortando
a rifabbricarla aggiunse che lui havrebbe fatto a sue spese l’Altar Maggiore” , come realmente per esso sosterrà.
Viene scelto dunque il Fuga, già architetto, dal 1730, dei Palazzi apostolici e,
tra altri autorevoli incarichi, sarà Architetto del Popolo romano (1747) -nel 1762 sarà altresì nominato primo architetto della corte Borbone a Napoli-,
come lo sono stati ad esempio Michelangelo, Giacomo Della Porta, Girolamo e
Carlo Rainaldi. Egli possiede arguta capacità di sostanziare, nei corpi
architettonici, le aspettative scaturite dalle esigenze tipiche di preminenti istituzioni,
poiché la sua valente esperienza gli consente di padroneggiare tipologie
edificatorie ove articola un sapiente controllo tecnico, giovandosi anche
di un’attitudine che lo estrinseca quale formidabile organizzatore di “fabbriche”.
Queste sue caratteristiche sono incise nell’attuale insieme basilica-cortile-palazzo,
dove l’ampio sviluppato spazio include visibili elementi barocchi, impaginati
con sintesi di motivi in rigorosa ornamentazione, che, per la basilica medesima,
si modella in riuscita rilettura di quanto architettonicamente “codificato”
-seconda metà del Cinquecento- dalla Chiesa del Santissimo Nome di Gesù
(all’Argentina), nota come Chiesa del Gesù.
Dalla demolizione -e dispersione dell’insieme ornamentale-
circa il precedente sito cultuale, titolato a S. Apollinare, sono risparmiati
il citato affresco della Vergine, diversi reliquiari e la statua
di S. Francesco Saverio, scultura del parigino Pierre Legros, il Giovane,
detto anche Pierre II Le Gros (1666-1719).
Egli muove i primi passi nella scultura quale allievo,
soprattutto, del padre, Pierre Legros. Arriva in Roma nel 1690 -successivamente
al riconoscimento di miglior giovane scultore (1686) - ai fini del suo perfezionamento
artistico presso l’Accademia di Francia; “l’Urbe” diverrà poi la sua definitiva
residenza. La sensibile poeticità di quanto inizia ad esprimere la sua cifra,
configurante composite incidenze, traccia distinguibili segni artistici, che
non sfuggono a una perspicace committenza, quale in tal periodo si manifesta
l’Ordine dei Gesuiti. Difatti, la sua prima notevole opera è realizzata esattamente
nella Chiesa del Gesù
(transetto di sinistra), vale a dire il gruppo statuario -di veemente sentimento “barocco” in rilevante chiave
“ classicista”-, la Religione che flagella l’Eresia (1696, circa), che gli suscita un rapido favore, confermato
dall’assegnazione della monumentale -ma non enfatica- scultura argentea di S. Ignazio di Loyola contornato da Angeli (1697, circa); essa purtroppo sarà fusa al termine del Settecento, nel
corso dell’occupazione francese proclamante la Repubblica Romana (1798-1799),
rimanendone solo la pianeta. Ciò che oggi si vede è, delle parti sottratte, il
ripristino, conforme all’originaria impostazione, in stucco argentato, lavoro
eseguito intorno al 1817 dallo studio di Antonio Canova. Tali lucenti opere si incastonano nel
pregevolissimo altare (1695-1697, circa), vetta tra gli apici del gesuita Andrea Pozzo. Ancora con “Fratel Pozzo”,
come spesso questi viene appellato (ha professato i voti religiosi nel 1676), Pierre
Legros è il coprotagonista nell’ulteriore mirabile vertice architettonico -l’altare
dominante il transetto destro della Chiesa di S. Ignazio di Loyola- con la sua ariosa
e lucentissima opera scultoria: Gloria di S. Luigi Gonzaga, pala
marmorea dell’altare, dedicato per l’appunto a questo santo. Altare compiuto,
con tutto il complesso apparato, dal 1697 al 1688; se ne ammira la foggia
leggermente concava, l’insieme di magistrale capacità compositiva, che, della
creatività di Andrea Pozzo, rappresenta un’eclatante novità dell’ultima fase
del “barocco”, riportando clamore altresì fuori dall’Italia. Soltanto come
inciso, in questa sede, rammento la complessa ed eccelsa impresa pittorica che
il Pozzo stesso immortala in tale chiesa (dal 1685), cominciando dalla
celeberrima finta cupola, soluzione pittorica consona calla maestosità
architettonica (e ornamentale) dell’edificio. L’idea però è già stata avanzata
da Carlo Maratta, il pittore di sinfonici accordi cromatici, ma la
verosimigliante dipinta struttura viene fattivamente concepita e messa in opera
da “Fratel Pozzo”, risultato di sue ardue valutazioni prospettiche. Egli sino
al 1702 -anno in cui lascia Roma- in tale tempio effigia altre sommità quali
sono i pennacchi, l’imbotte e il catino dell’abside, la grande volta illusoriamente
aperta alle profondità celesti e altro ancora. Chiesa ove si presentano, come
un particolare arcobaleno, registri e semantiche completezze che distribuendosi
risolvono superbamente il suddividersi degli imponenti volumi, generando
variazioni cromatiche e morfologiche, vertiginose modulate spazialità. Con il
mio post imperniato sulla “Chiesa di S. Ignazio di Loyola in Campo
Marzio (cenni su Antonio Pozzo): l’affresco della “Annunciazione” della
Sacrestia “(26 settembre 2015), ho affrontato parte di queste artistiche
peculiarità, così vibranti in quegli ambienti.
Legros, chiamato a collaborare strettamente in alcune opere
del religioso artista, quindi non può che padroneggiare, scolpendo il marmo, capacità
modellante armonici piani con vitalità pittorica, in una lucida sintesi di
ritmi briosi, di sfumante slancio e di commossa dolcezza.
Ora però, abbandonando lo sguardo su altre opere dello
scultore francese, rivolgendoci nuovamente alla Basilica di S. Apollinare, è maggiormente
percepibile, a mio avviso, che in essa vi sia la testimonianza, di uno
scultore, indubbiamente non secondario e che, il vasto “preambolo” finora
scritto, ha inteso rilevare, come in precedenza affermato, l’importanza
storico-artistica di questo tempio, all’epoca affidato, come si è detto, alle
cure dei Gesuiti. In Roma perciò esso si pone in forte dialogo con il “Gesù” e
con “S. Ignazio”.
La navata unica, della
Basilica, è percorsa da un fervido silenzio, spalancato sull’ampio presbiterio;
in entrambi i lati stanno tre cappelle, l’ultima del fianco destro è dedicata a
S. Francesco Saverio già nel 1696, quando comprende altra ornamentazione. La
nuova, concernente la volta, viene eseguita intorno al 1742, come i due Putti
collocati sul timpano, cui la forma sembra suggerire, quale autore fra diversi
nomi, Bernardino Ludovisi. Nella nicchia dell’altare è posta la statua di S. Francesco Saverio di, per l’appunto, Pierre Legros, il Giovane (segue
immagine), eseguita entro il 1702.
Lo sguardo si posa sulla scultura di S. Francesco
Saverio, rivelandosi opera che in sé racchiude ogni verso della poetica di
Legros, benché, apparentemente, si presenti con un respiro dimesso, rispetto
alla potente resa plastica, magnificamente vibrante nelle precedenti menzionate
opere. Anche questa invece emana una rimarchevole sensibilità modellata in
forma, che svela profondità psicologiche così indaganti il personaggio
raffigurato.
Francesco Saverio, cardine della Societas
Iesu, è nel suo primigenio nucleo. Straordinario missionario, espone il
Vangelo alle eminenti culture orientali, adeguandolo, con erudita e schietta
consapevolezza evangelica, all'animo delle diverse popolazioni locali. Secondo
alcune fonti, egli avrebbe battezzato oltre 30.000 persone.
La statua in S. Apollinare lo rappresenta
con l’amato crocifisso -copia moderna- e con un granchio ai suoi piedi (segue
immagine), richiamando un episodio fronteggiato dal santo gesuita. Nominato
da Paolo III nunzio apostolico di tutti i paesi asiatici, nell’aprile del 1541,
egli salpa dal Portogallo per le Indie. Il circumnavigare l’Africa però si
evidenzia evento sommamente tribolato, poiché il durevole perdurarne (13 mesi
circa) causa penuria di cibo e anzitutto d’acqua; penosa condizione affiancata
da una canicola estrema oltre che da bonacce e da improvvise burrasche. La nave -Santa
Croce- resta immobile in pieno mare, senza che spiri minimo
alito di vento; ogni persona a bordo patisce la sete per l’acqua potabile ormai
mancante. Francesco Saverio però non cessa di pregare, esortando tutti ad unirsi
al suo fare. Divinamente ispirato, scende, con alcuni membri dell’equipaggio, dall’imbarcazione
e su una scialuppa ordina di immergere un recipiente nell’acqua marina, che poi
benedice. Quell’acqua diviene miracolosamente dolce e perciò bevibile; tra giubilanti
grida si riempiono tutti i contenitori stivati nella nave ma, durante i
relativi frenetici generali movimenti, il missionario gesuita smarrisce in mare
il suo crocifisso. Sconfinato dolore lo percuote tanto da muovere a compassione
Cristo stesso, il quale consente che un granchio, recuperandolo, glielo porga
sulla riva, una volta sbarcato. Questa scena è rappresentata in una lunetta
dell’atrio afferente all’Oratorio detto del Caravita -prossimo alla Chiesa di
S. Ignazio-, tratta dalle Storie di S. Francesco Saverio dipinte da Lazzaro
Baldi (1671-1673).
Accadimento dalla densa andatura devozionale, però dalla salda
valenza simbolica strettamente coniugata alla figura del Saverio. Discende,
tale sottile segno di riconoscimento, da quanto avviene allo scudo dorsale del
granchio. Invero, il suo carapace viene, in alcune specie, periodicamente perso
e mutato e rinnovato, in contemporaneità con la primavera e con l’autunno,
raffigurando dunque, nella simbologia cristiana, la resurrezione dal sepolcro,
pertanto la rinascita attraverso il battesimo fondato sulla certezza della anàstasi,
precisamente la resurrezione, alla fine dei tempi, dei morti, come
asserisce S. Paolo: “… ignorate voi che … siamo stati battezzati in Cristo
Gesù, che siamo stati battezzati nella sua morte? Noi siamo dunque stati con
lui seppelliti mediante il battesimo nella sua morte, affinché come Cristo è
resuscitato dai morti, mediante la gloria del Padre, così anche noi camminiamo
in novità di vita. Perché, se siamo divenuti una stessa cosa con lui per una
morte somigliante alla sua, lo saremo anche per una resurrezione simile alla
sua …” (epistola ai Romani, capitolo 6, versi 3-5). Questa precisa immagine
simbolica del granchio guida al parallelismo, paolino, Adamo-Cristo:” Perché,
se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la
risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo
tutti riceveranno la vita” (I epistola ai Corinzi,
capitolo 15, versi 21-22). A tal riguardo, S. Tommaso d’Aquino, l’illuminato
filosofo e teologo del XIII sec., argomenta che” Gesù Cristo non è venuto
sulla terra … per morire; egli è venuto per unirci a lui e per associarci al
suo trionfo … La morte non è che la metà dell’opera redentrice, che reclama la
risurrezione come suo complemento necessario … Senza la risurrezione la fede non
ha il suo vero oggetto; senza la risurrezione il battesimo non ha il suo
completo simbolismo”. Si evidenzia, percorrendo l’irto ma chiaro sentiero dell’intera
figurazione, del senso in essa contenuto, quanto sia, come detto, attinente all’operoso
fervore del santo gesuita.
La sua è un’osmosi in cui affluiscono, con
fini elementi accademici, l’impeto derivato dalla scuola berniniana e la
sensibilità classicista pronunciata da Alessandro Algardi, che pure a sua volta
non è scevra, talvolta, di influssi derivati da Gian Lorenzo Bernini.
In tal
modo si legge quella sembianza densamente plastica del viso e le mosse pieghe
dei tessuti; ogni particolare è pervaso di una luce, che ne intride la forma instillando
alla scultura un intenso carattere pienamente espressivo, che ne muove una
transizione, continua, da scultura a pittura e viceversa.
Abile dosaggio delle attitudini artistiche di
Pierre Legros, il Giovane, volte a elevare un’evidente profondità psicologica,
anche in questo caso, della rappresentazione, in una mistica atmosfera, in un
atto di reale contemplazione, per la particolare consistenza della trama scultoria, che ne mostra l’icastica
intuizione condotta con accenti delicati ma vividi, dettagliatamente studiati
ma schietti in ogni passaggio dell’opera, che rende tangibile l’immaterialità
della fede.
Ringrazio
il Rev. don Antonio Rodríguez de Rivera,
Rettore della Basilica di Sant'Apollinare,
per la gentile autorizzazione circa la pubblicazione delle immagini comprese in questo post
per la gentile autorizzazione circa la pubblicazione delle immagini comprese in questo post