Di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino
(1591-1666) il mio post, del 13 febbraio 2015, ne ha illustrato le tele
romane esposte nella mostra “Da Guercino a Caravaggio”, svoltasi a Palazzo
Barberini, vale a dire: Et in Arcadia Ego, Incredulità
di S. Tommaso, Ritratto del Cardinale
Bernardino Spada, Sibilla Persica.
Egli è chiamato a Roma dal neo eletto papa Gregorio
XV (Alessandro Ludovisi), già arcivescovo di Bologna, poiché suo pittore
favorito. Nella “Città Eterna”
(1621-1623) il Barbieri, nato a Cento -nel ferrarese-, esprime la pittura degli
affetti –che non scade in un accademico sentimentalismo-, con la quale il nitore delle scene o il “lume” dei
personaggi ha fondamento nella suprema idea di bellezza. La sua entità
artistica è magnificata dall’enfasi della sostanza pittorica, materia avvertita
come colma di luce, viva nella propria morbida espressività, in un costante
contrapporsi di toni caldi-freddi come lo è “il sentire” che scorre
nell’esistenza umana, reso con cifra piena di effetti, risaltata dal celebre suo affresco
a tempera (con la collaborazione di Agostino Tassi), raffigurante “Aurora
che avanza su un carro spargendo fiori”, testimonianza della sua felice deflagrazione luministica pittorica.
Opera realizzata nella villa -dove esegue altri dipinti- acquistata dal
cardinale Ludovico Ludovisi (nipote del regnante pontefice), esempio di densa liricità e di pregevole plasticità colma
di armonico moto. In questo lavoro però -come in altri suoi- non alberga
soltanto un magnifico “atto decorativo”, esaltante la committenza, svolgendosi
in esso altresì un articolato tema concettuale con rimandi ermetici, così
vividi tra intellettuali, artisti e anche in taluni ambienti religiosi.
A Roma sono conservati alcuni suoi lavori, che
si raffrontano con l’ambiente culturale caratterizzante la città, in cui
culminano quella mobilità del “verso atmosferico”, quella sorta d’impeto che
traduce il respiro del sentimento, affiorando, in alcuni dipinti, un
naturalismo non disgiunto da un’idealizzazione vibrante di alcune figure,
soprattutto femminili. Il suo particolare “macchiato” quasi palpitante,
inoltre, vuole aggiungere alla “tessitura”, delle opere, toni di suggestiva poeticità.
La Maddalena penitente (1559-1660, Roma, Fondazione Sorgente Group), argomento di questo post, manifesta tali artistici tratti del Guercino; soggetto abbastanza frequentato dal suo repertorio, come ad esempio la Maddalena con la corona di spine (1632, Roma, Collezione Mainetti nella Fondazione Sorgente Group, segue immagine tratta da Google), o la Maddalena in preghiera dinanzi ai chiodi della Passione (1644, circa, Mosca, Collezione privata), opere attraverso le quali scandisce versi ove s’innalza un’ammirevole partitura di assorto sentimento. L’essenza muliebre è protagonista nella magnifica, ordinata, successione di note in intima religiosità, che eludono forme, anche larvatamente, devozionali per esprimere affetto incarnato.
Nei dipinti del Guercino, la donna, nelle diverse espressioni
rappresentate, vi riflette una concretezza che diviene musica, contenuto costruito
su un concetto morale, accento pacatamente mistico, aspetto esoterico; perciò la
raffigurazione della donna sostanzia il tramite per una vasta visuale escludente
la quotidianità, un modo appropriato per rappresentare il divino, l’idealità.
Tale visione distingue, nel divenire della
vita - transizione da uno stato all’altro-, ciò che sorge insolito come ardente
esposizione cromatica, che eleva l’esistenza, tale da donare reale respiro a
quel sentimento di pieno affetto, che la donna svela. Insieme di virtù (eletta
forza) palesi e alte, così espresse dalla bellezza fisica, sino a mostrarsi
sovrana concreta condizione, della realtà altra, nella sua assolutezza
muliebre, percezione piena nella conoscenza, luce colma di giovinezza mai
offesa dal tempo.
Prima di ammirare, nella sua completezza, la tela
della “nostra” Maddalena, occorre trattenerci sulla sua figura
religiosa, per meglio coglierne tutti gli elementi che la compongono.
Potremmo
definirla quale santa diffamata e contemporaneamente gloriata sugli altari. Imprigionata
nel fisso modello di donna, già meretrice, redenta da Cristo. L’intricata
calunnia sembra nascere da episodi narrati nel Vangelo di Luca, iniziando dalla
“peccatrice perdonata” (capitolo 7, versi 36-50), dove è descritta la
conversione di “una donna che era in quella città, una peccatrice”,
colei che con unguento profumato “stando
ai piedi di lui… piangendo, cominciò a rigargli di lacrime i piedi , e li
asciugava coi capelli del suo capo, e gli baciava e ribaciava i piedi e li
ungeva con l’olio … egli disse alla donna: la tua fede ti ha salvata, va in
pace”. Privo di alcun nesso testuale si è voluto invece congiungere la
redenta -cui non è citato il nome-, di questo brano, a Maria detta la Magdalena
(nota come Maria di Magdala) menzionata tra le pie donne che seguono Gesù
Cristo: “con lui erano i dodici e certe donne che erano state guarite da
spiriti maligni e da infermità, cioè Maria detta la Magdalena, dalla quale
erano usciti sette demoni” (capitolo 8, verso 2). Su questo
passo si è poi generato l’abbaglio, insopprimibile, della storia elaborata su
tale personaggio. Poiché il numero sette indica, nel codice biblico, la
pienezza, in tale caso appare riferirsi a un male molto gravoso, di natura
fisica o -seconda supposizione- morale, penetrato nella donna e dal quale Cristo
l’ha, in precedenza, affrancata. La tradizione errata però solidifica la sua
traiettoria, identificando altresì Maria di Betania (sorella di Marta e di
Lazzaro) con la Magdalena (intesa come quella anonima “peccatrice”), in
forza del medesimo atto, di venerazione (unzione dei piedi), da ella compiuto
nei confronti di Cristo, contenuto nel Vangelo di Giovanni (capitolo 12, versi
1-8), ampliando la stesura dell’episodio compreso nei Vangeli di Matteo
(capitolo 26, versi 6-13) e di Marco (capitolo 14, versi 3-9). La santa così individuata
sarà riconosciuta nel culto e dunque nella storia dell’arte, giungendo intatta
sino alla nostra epoca.
Lo
sguardo ora comincia a volgersi alla Maddalena penitente conservata
presso la Fondazione Sorgente Group di Roma, che sebbene il disegno e l’impianto
siano propri del Guercino, un’ipotesi ne ascrive sostanzioso intervento della sua
bottega felsinea - a Bologna egli si è trasferito, da Cento,
all’inizio del 1642-, tesi nella quale deve essere -quantomeno- sottolineato lo
stretto dettato del “nostro” pittore. In precedenza, dopo la morte di Gregorio
XV (1623), il Barbieri, ritorna a Cento presso la sua laboriosa famiglia, per
portare a compimento diversi lavori lasciati incompleti, poiché richiesto, come
in precedenza detto, a Roma (1621) da papa Ludovisi. Da questo momento, sino alla
fine del 1641, egli ristabilisce lo studio nel suo luogo di nascita, dove
notevolmente accrescono commissioni, accogliendovi anche prestigiose visite,
tra cui quella di Cristina di
Svezia. La sua committenza e l’ammirazione nutrita per la sua maestria si
espandono oltre modo, includendo, secondo una notizia, Carlo I re d'Inghilterra,
con sicurezza Luigi XIII re di Francia e gli Estensi (ducato di Modena e
Reggio).
Importante prova documentale della sua
attività è fornita dal “libro dei conti”, iniziato nel gennaio 1629 sino alla sua
morte; in origine viene tenuto da suo fratello minore Paolo Antonio, pittore di
nature morte e paesaggi, che dirige, con il fratello maggiore, la bottega,
amministrando i beni della “casa”. Le annotazioni sul libro contabile sono poi scritte
dal Guercino stesso, dopo il decesso del fratello avvenuto nel 1649
(l'autografo è custodito presso la Biblioteca comunale dell'Archiginnasio di
Bologna); vi si legge l’elenco delle commissioni ottenute, le indicazioni delle
relative date, il nome del committente e il denaro ricevuto per l'opera
eseguita.
All’inizio
del 1642 l’artista si trasferisce, come già accennato, a Bologna, non apparendo
fortuito il verificarsi di tale evento, quasi concomitante con la morte di
Guido Reni (accaduta nell’agosto del medesimo anno), colui che ha “governato la
pittura” a Bologna; difatti, sarà il Guercino considerato nuovo “pittore
principe” della città felsinea, sino alla sua estrema dipartita.
Tornando
alla Maddalena della Fondazione Sorgente Group, grazie a quel libro dei
conti, si ha conoscenza che, per l’esecuzione della relativa tela (e di
un’ulteriore circa altro soggetto), il Guercino riceve un saldo di 80 ducatoni
(grandi monete d’argento) nel gennaio 1660, dal nobile genovese Girolamo
Panessi.
In ambito pittorico, circa questa soluzione riportata in effige, si corre alla personale Melanconia, appellata altresì Meditazione (1618, Venezia, Gallerie dell'Accademia), di Domenico Fetti, raffigurazione di eclatante risonanza, da cui sono tratte copie e versioni sia ad essa contemporanee sia posteriori. L’estro di quest’ultimo artista concepisce, intorno al 1619, la Maddalena penitente (Roma, Galleria Doria Pamphilj, segue immagine tratta da Google), divenendo un acclamato modello di equilibrata formulazione.
La
figura -che sviluppa e arricchisce l’assetto della già menzionata Maddalena in preghiera dinanzi ai chiodi della
Passione, del 1644- ben
dischiude un “sentire affetto”, con la sua malinconica meditazione, accentuata
dal gesto del braccio e della mano, cui le dita sono avvolte nel bianco panno,
che lambisce l’occhio destro della protagonista, ove si è arrestata una lieve
lacrima. Attraverso la mano su cui, con fare delicato, la raffigurata poggia la
testa, sembra al primo sguardo un circoscrivere, del Barbieri, la sua opera alla
sola pura emotività, a un composto patimento che rammemora l’atroce passione di
Cristo, rappresentata dai tre chiodi, posti su una pietra, uno dei quali
lievemente lambito dalla mano sinistra della santa. La scena è dipinta
con delicato tono, illuminata da luce morbida quasi diafana che non si sottrae
al contrasto, pacato, chiaroscurale su cui si definisce la spiccata soffice
monumentalità del personaggio. Florida donna dalle flessuose membra, ideale
femminile costantemente presente nelle opere “guercinesche” nell’evoluzione
della sua cifra, che assume, con la maturazione artistica e umana, sembiante maggiormente
adulto e raccolto. La bellezza muliebre quindi, nella tavolozza del Guercino
-come dimostra questo olio su tela-, non svanisce, al contrario una completa
grazia, una composita finezza pervade la donna ritratta; all’esuberanza delle
figure giovanili, egli sostituisce una seducente ancor più incisa raffinatezza.
Una
felice sorta di quinta teatrale è tratteggiata quale apertura dell’antro, dove
il personaggio armoniosamente echeggia il martirio di Cristo; la scena
inquadrata è risolta con capace sfuggente gioco di prospettiva in un cielo densamente
azzurro.
La
Maddalena dalle lunghe chiome sciolte -come da tradizione tutta
occidentale-, alludenti alla donna peccatrice, alla prostituta, che ha
asciugato, con i suoi capelli, i piedi di Cristo, dal quale è stata redenta; la
fluente libera capigliatura perciò testimonia sia tale intimo contatto con il
Messia, sia la sua precedente condizione peccaminosa, poiché le donne probe
bene acconciano i propri capelli. Ella già grande peccatrice vuole percorrere
la passione del Salvatore -secondo la consolidata voce devozionale- tramite una
vita di stretta penitenza, trascorrendola, dopo la resurrezione di Cristo, in estremo
eremitaggio. Ma questa Maddalena, rispetto ad altre, benché sia
pienamente coinvolta in digiuni, veglie in preghiera, non è abbandonata dalla
beltà; le sue nude membra -avvolte in parte dalla lieve, quasi sbiadita, porpora
del manto- sono illuminate da una leggiadria accarezzata da soffusa sensualità,
che non confligge con la redenzione, anzi la penitenza in questo caso viene
esaltata dall’eufonico pallore steso su quel corpo disegnato.
Immergendo
gli occhi, nelle profondità di questa tela, l’emotività e il composto patimento
sono avvinti ad un’assolutezza che dona uno spazio d’infinità, il
quale, da
esplicito movimento mentale, si trasforma in verità non racchiusa in una circoscritta
spiritualizzazione, in una sembianza irraggiungibile, avulsa dalla realtà
sensibile, tanto che quello speco è trasmutato in tangibile adito celeste.