Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), architetto di grandiose realizzazioni impresse di accenti caratteristicamente “barocchi”, pregni di movimento e di suggestiva fastosità, ma altresì capace di dar forma, attraverso la sua sensibilità, a sistemi edificatori che, nella configurazione planimetrica – e molto spesso prospettica- rivisitano canoni cinquecenteschi, tuttavia da questi il suo vigoroso temperamento, in determinate “fabbriche”, si discosta modellando plurime fonti, da dove le sue opere si ergono con accezione interamente nuova.
Bernini
scultore che, magnificamente, slega il marmo dall’incagliare del tardo
“Manierismo”, superandone l’impaludato modellato, plasmando un nuovo verso
scultorio, foggiando moti che, liberamente, effondono le loro dimensioni nello
spazio, scandendo sublimi effetti d’immediate azioni, vitali e leggiadre in e
da quanto rappresentato. Abilità creativa che penetra in atti fisici, per
risolverli in stati psicologici; fulminee pose, di personaggi, sconfessanti la rigidezza
marmorea, che egli trasforma in carne con sostanza di levità;
aligero moto delle figure e dei corpi nella forma che apre, quanto scolpito,
tra sparse chiome e membra permeate di luce, trasfondendo, a quanto raffigurato,
aura pittorica. Sculture permeate ora da un’espansiva e vigorosa vitalità, ora -in
muliebri personaggi-da un sensuale palpito intonante compiuta grazia;
culminanti mistici rapimenti in un vibrare di celesti strali in illuminanti
misteriosi chiarori, che riverberano gemiti di stupefacente sacralità, in una
sinfonia di superlativa tensione spirituale. Magnifica è la resa delle figure
sprigionanti quell’intensa luminosità, esaltata dalla formidabile cura dei tessuti
delle vesti, i quali intensificano l’agente forza di tutta la superficie della
scena, esponendone il plasmare superlativo -del marmo- con commovente moto,
avvolto dalla bellezza fiammeggiata da un divino bagliore diffuso.
Bernini
artista” universale”, realizzatore anche di spettacolosi effimeri apparati
decorativi, oltre ad essere autore di commedie -ideate per una ristretta platea-
allestite con rimarchevole minuziosità, colme di efficaci insolite arguzie
sceniche, effetti che tramutano la finzione teatrale in realtà conducendo, gli
spettatori, in un universo stupefacente.
Bernini
nell’estro pittorico ma sottomesso, per la mole dei lavori commissionati, alla
sua arte architettonica e scultoria, determinandone un’evidente minore presenza
nell’insieme delle opere compiute. Eppure, la tavolozza berniniana, mostra un
particolare pregiato dinamismo, che declama, per lo più, l’abbandono di qualunque
atteggiamento enfatico, manifestando un altro spontaneo sentire; cifra
stilistica che pur non rinuncia a trasmettere un evocativo ed equilibrato vigore,
altresì denso di forza spirituale.
L’arte
pittorica berniniana si colloca nella creazione architettonica e scultoria,
come si dimostra nelle testimonianze biografiche, considerate indubbie sin dalla
loro diffusione e, sino ad oggi, definitive.
La
prima, cronologicamente pubblicata (1682) appena due anni dopo il decesso
dell’artista, si snoda già dal titolo “Vita del Cavaliere Gio: Lorenzo
Bernino Scultore, Architetto, Pittore”, scritta da “Filippo
Baldinucci Fiorentino”, dedicata alla “Sacra e Reale Maestà di Cristina
di Svezia”. Volume in cui vi sono raccolte testimonianze dirette, espresse
da suoi figli e da suoi stretti collaboratori, da altri artisti conoscitori di
precise esperienze berniniane, oltre a quanto è derivato dalla consultazione di
documenti conservati nell'archivio della Fabbrica di S. Pietro.
La
seconda cronologica biografia -1713, ma elaborata molto prima- “Vita del
Cavalier Gio. Lorenzo Bernino, descritta da Domenico Bernino suo figlio”
comprende l’affettuosa, non edulcorata, netta descrizione di episodi ed effetti
e mete del padre, definito:” alquanto aspro di natura anche nelle cose ben
fatte, fisso nelle operazioni, ardente nell’ira”. Particolareggiata
“biografia della vita” in molti passaggi tratta da una sorta di memoria
personale, organizzata dal celeberrimo genitore, volta a rappresentare
l’assolutezza della sua epoca, manifestata con la scultura, con l’architettura
e, per l’appunto, con la pittura, arti palesate in nuove, universali forme in
intima connessione tra loro.
Bernini
pittore, tuttavia indefinibile per le sue particolari caratterizzazioni -che
più avanti osserverò-, rispetto a quanto propone e concreta negli altri ambiti
artistici, in cui effonde la “poetica barocca”. Poetica - come ho argomentato
nel mio post “Il manifestarsi del Barocco” (5 maggio 2015) – intesa come
estrema eterogeneità, esaltazione del singolare, acuta tensione verso la
bellezza, effetto del “sempre nuovo”, del sorprendente.
Nella
pittura, ciononostante l’attinente indefinibilità berniniana, il “sentimento
barocco” nutrito dall’artista, quale immediata percezione interiore, è pienamente
collimante con quel concepire di raffigurazioni, trascendenti, create da
un’ispirazione realmente poetica. Essa pertanto non viene, nell’intimo, fattivamente
separata dal suo universo, quando, nelle fabbriche monumentali dove egli si
adopera, l’esecuzione pittorica viene affidata ad altri autori, ovvero -in
loco- per la sua indiretta influenza, o per suoi specifici consigli, o per assegnata
supervisione estrinsecata in quegli esaltanti “cantieri”. Suo esternato
giudizio o, ancor meglio, suo espletante coordinamento che determina la
compiutezza dell’intero repertorio espressivo, acceso dalle differenti
“pratiche d’arte”, fuse in un insieme inscindibile nell’attuazione di quanto
indicato nel progetto. Bernini quindi riesce a congiungere architettura,
scultura e pittura, finalità che, il Baldinucci, nella biografia berniniana
esplicita (confermata da quella successiva di Domenico Bernini):” E’
concetto molto universale ch’egli sia il primo, che abbia tentato di unire
l’architettura colla scultura e pittura in tal modo, che di tutte si facesse un
“bel composto”; il che egli fece con togliere alcune uniformità odiose
di attitudini, rompendole talora senza violare le buone regole, ma senza
obbligarsi a regola; ed era suo detto ordinario in tal proposito che chi non
esce talvolta della regola non la passa mai; voleva però, che chi non era
insieme pittore e scultore, a ciò non si cimentasse, ma si stesse fermo ne’
buoni precetti dell’arte”. Tale
intento diventa un sistema progettuale e un fondamento estetico, che s’invola
verso la vibrante bellezza sublime, connotando l’opera berniniana.
Le
regole -la loro pedissequa osservanza-, secondo questo principio, sono
strumenti che sopperiscono alla penuria, alla mancanza di acuto estro e di
faconda creatività. Adoperarle quindi per essere forzate, per realizzare quel “bel
composto”, che dona corpo -riprendendo ancora un brano del su richiamato
mio post-, con varietà e ricchezza dei materiali, a forme levitanti,
irregolari e complesse, a chiare linee sinuose e schiuse, a grandiosità in
movimento, ad artifici luministici, a scenografie di estrema e stupefacente
ingegnosità, ad ambientazioni sfarzose, a maestosi e concitati contrasti
chiaroscurali, a pittoriche vibrazioni esaltanti il pathos dei
personaggi. In questo magmatico elevato spazio, il Bernini, si erge ad anima
del “Barocco”. Sommo l’estro berniniano e tale sin dagli anni giovanili, così preminente
nella temperie artistica romana; lirico afflato calorosamente accolto da papa
Urbano VIII
(1623-1644) -sulla scia dei predecessori Paolo V (1605-1621) e Gregorio XV
(1621-1623) -, al secolo Maffeo Barberini, il quale nella porpora cardinalizia
ne ha già apprezzato la marcata valenza. Infatti, ancora il Baldinucci registra
che:” Già era stato assunto al Sommo Pontificato il Card. Maffeo Barberino,
che fu Urbano VIII … Qui larghissimo campo s’aperse alle fortune del
Bernino, imperciocché quel gran Pontefice non appena asceso al Sacro Soglio,
che egli il fece chiamare a se, ed accoltolo con dolci maniere, in sì fatta
guisa gli ragionò: E’ gran fortuna la vostra, o Cavaliere, di veder Papa il
Cardinal Maffeo Barberino, ma assai maggiore è la nostra, che il Cavaliere
Bernino viva nel nostro Pontificato… egli aveva concepito … di
far dipignere a lui tutta la Loggia della benedizione (progetto mai
eseguito, antecedentemente già affidato, da Paolo V, a Giovanni Lanfranco e,
successivamente assegnato, da Gregorio XV, a Giovanni Francesco Barbieri, il
Guercino); il perché gli significò esser gusto suo, che egli s’ingegnasse
d’applicar molto del suo tempo in studi di Architettura, e Pittura, a fine di
congiugnere alle altre sue virtù (l’eccelsa perizia mostrata dai suoi
gruppi scolpiti) eminenza anche quelle belle facoltà … Per lo spazio
di due anni continovi attese alla Pittura, voglio dire a far pratica di
maneggiare il colore attesoché egli già le gran difficoltà del disegno co’ suoi
grandissimi studi superare avesse. In questo stesso tempo, senza lasciar gli
studi di Architettura, fece egli gran quantità di Quadri grandi, e piccoli, i
quali oggi nelle celebri Gallerie di Roma, ed in altri degnissimi luoghi fanno
pomposa mostra”.
Bernini
nella pittura, che molto avverte nella sua intimità, come si legge in un altro
tratto dello scritto: “ Conobbe egli fin da principio, che il suo forte era
la Scultura, onde quantunque egli al dipignere si sentisse molto inclinato, con
tutto ciò non vi si volle fermar del tutto; e ‘l suo
dipignere, potiamo dire, che fu per mero divertimento; fece egli perciò sì
gran progetti per quell’Arte; che si vedono di sua mano, oltre a quelli, che
sono in pubblico sopra 150, quadri, molti de’ quali son posseduti
dall’Eccellentissimi Cardinali (Francesco) Barberino, e (Flavio) Chigi
(“cardinal nepote” di Alessandro VII), e da quella de’ suoi figliuoli”.
La sua scultura senza pari, magnificata dai suoi contemporanei:” Non fu mai
forse avanti a’ nostri e nel suo tempo, che con più facilità, e franchezza
maneggiasse il marmo. Diede all’opere sue una tenerezza meravigliosa, dalla
quale appresero poi molti grandi uomini, che hanno operato in Roma ne’ suoi
tempi; e sebbene alcuni biasimavano i panneggiamenti delle sue Statue, come
troppo ripiegati, e troppo trafitti, egli però stimava esser quello un pregio
particolare del suo scarpello, il quale in tal modo mostrava aver vinta la gran
difficultà di render, per così dire, il marmo pieghevole, e di sapere ad un
certo modo accoppiare insieme la Pittura, e la Scultura, ed il non avere ciò
fatto gli altri artefici, diceva dependere dal non esser dato loro il cuore di
rendere i sassi così ubbidienti alla mano, quanto se fussero stati di pasta, o
cera; questo però diceva egli non già con affetto di iattanza, o presunzione,
ma per render conto di se stesso, e dell’opere sue”. Creatività immaginifica
che, della scultura, ne reiventa concepimento nuovo e ardito in un’unitarietà organica;
espressione d’illimitatezza, che oltrepassa la singola visione delle arti per
“avverare” il culmine figurativo, che rende inviolabile, “sacra”, la
straordinaria possanza espressiva di quella compenetrante unità, per la quale
l’architettura si abbiglia di scultura e questa di pittura e viceversa. Così,
superbo esempio- sottolineato nel mio post dedicato a François Duquesnoy
(22 ottobre 2015) -, virtuosamente e poderosamente esclamano, nella Basilica
papale di S. Pietro, i voluminosi piloni “sollevanti” la cupola
michelangiolesca, con il loro corpo disserrato dalle logge, che incoronano gli
altari dedicati a santi personaggi e le grandi nicchie esaltate dalle statue
(cui il S. Longino è direttamente scolpito dal Bernini) combinanti una
coralità, che definisce lo spazio centripeto della navata centrale intorno al
baldacchino, mentre questo, monumentale e complesso (sì berniniano, però tanto
deve alla creatività del Borromini), assume una sacrale poderosità idiomatica,
che trasmette, all’osservatore, un vibrante convincimento di assistere a un evento,
che supera le possibilità dell’umana azione, coinvolgimento da una grandezza
scenica sospingente l’animo tra quelle rifulgenze. Da essi si apre ancor
più la superficie immensa dove l’emozione, che travalica facoltà intellettive, rimane
presa dalla magnificenza conclusiva dell’edificio, rappresentato dalla fastosa Cathedra
Petri, capace di trasformare in commovente -nel proprio significato
dell’etimo, dal latino “mettere in movimento” -, energia un multiforme apparato
monumentale e celebrativo.
Un
aneddoto -si vuole narrato dallo stesso Bernini e raccolto dal Baldinucci- si propone di anticipare, anzi di vaticinare, la magistrale esecuzione di quell’incomparabile insieme
architettonico-scultoreo, curioso episodio che, forse non fortuitamente, è
legato ad Annibale Carracci, il pittore dell’armoniosa sintesi tra realtà sensibile,
naturale e reinterpretazione del linguaggio classico: “ Viveasene il
Fanciullo (Bernini) in questo tempo così innamorato dell’arte, che non
solo tenea con essa sempre legati i suoi più intimi pensieri, ma il trattar con
gli Artefici di maggior grido, riputava egli le sue maggior delizie. Avvenne un
giorno, ch’è si trovò col celebratissimo Anibal Carracci, ed altri virtuosi
della Basilica di S. Pietro, e già avean tutti sodisfatto alla lor divozione,
quando nell’uscir di Chiesa quel gran Maestro, voltatosi verso la Tribuna, così
parlò: Credete a me, che egli ha pure da venire, quando che sia, un qual che
prodigioso ingegno, che in quel mezzo, e in quel fondo ha da far due gran moli
proporzionate alla vastità di quello Tempio. Tanto bastò, e non più, per far
sì, che il Bernino tutto ardesse per desiderio di condursi egli a tanto; e non
potendo raffrenare gl’interni impulsi, col più vivo del cuore: o fussi pure io
quello! E così senza punto avvedersene interpretò il vaticino di Anibale, che
poi nella sua propria persona si avverò così appunto, come noi a suo tempo
diremo, parlando delle sue mirabili opere, che egli per quei luoghi condusse”.
Questo
episodio è peraltro dubbio, per la cronologia inerente ai personaggi e allo
stato dei lavori circa la stessa Basilica. Il Bernini è presente a Roma tra il
1605 e il 1606 (quindi tra i sette e gli otto anni di età), periodo durante il
quale, il Carracci, cade in depressione per gravemente ammalarsi tanto che, la
maggior parte dei suoi lavori, sono eseguiti da aiuti, talvolta da suoi
disegni; lo stato di salute peggiora conducendolo rapidamente alla morte nel
1609, quando Gian Lorenzo ha raggiunto gli undici anni di età. Secondo lo stesso
Baldinucci e Domenico Bernini, egli avrebbe realizzato alcune opere in marmo proprio
dall’età di otto anni, come avvalorerebbero recenti studi, cui ne mantengo
remore. Inoltre, relativamente ai coevi lavori nella Fabbrica di S. Pietro e
dunque al suo stato reale dell’epoca, il pontefice, Paolo V, dispone la definitiva
distruzione dell'antica struttura basilicale, che si avvia all’inizio della
primavera del 1606, indicendo contemporaneamente un bando circa il mutamento
dell’impianto, da croce greca -come disegnato da Michelangelo- a croce latina,
altresì su il non trascurabile parere della Curia, che considera l’edificio, in
tal modo sviluppato, conforme alla tradizione cattolica e alle relative
cerimonie liturgiche. Carlo Maderno, con la collaborazione di Carlo Fontana,
fratello maggiore di Domenico, è chiamato ad affrontare una delle imprese più
ardue del Seicento; i relativi lavori iniziano nella primavera del 1607,
interessando le navate dalla metà dell’anno successivo, mentre già è in costruzione la
facciata. Questo complessivo scenario appare escludere l’evento -dal timbro
decisamente laudatorio- prima narrato, ma racchiude un coerente significato
interpretativo: la concezione di una distinguibile forma unitaria, scaturita
dal fondersi delle arti -delle quali, la pittura, è personificata dal Carracci-,
come verità incardinata sull’immaginazione, come incitamento ed impeto dell’anima.
Non accessorio a tale “vedere” si staglia quindi il riferimento al Carracci,
stabilendo il rapporto tra l’oggetto della peculiare visione e il concreto
contenuto dell’espressione pittorica, cui l’artista bolognese ne rappresenta un
vertice, che avrà loquacità sino al primo Ottocento.
Ritornando
a quanto indica il Baldinucci, riguardo ai “due anni continovi attese alla
Pittura”, alcuni attuali studi -con i quali concordo- sono tradotti come
fase non strettamente legata a un addestramento, acquisente sicura e abile
tecnica pittorica, bensì concretante la volontà,
espressa da Urbano VIII, di indirizzare, anche in
quest’arte, il già famoso Bernini, coerentemente con il suo ponteficale proposito
volto a combinare, visivamente, una globale lettura della rinnovata
spiritualità, attraverso temi esaltanti il trionfo della Chiesa. Questa
finalità, del pontefice, appare quale razionale motivo della speculare
realizzazione di due santi, affidata al “nostro” Gian Lorenzo - Ss. Andrea e Tommaso, sua dipinta opera tra le più compiute - e ad Andrea
Sacchi - Ss. Antonio Abate e Francesco d'Assisi- ambedue eseguiti nel
medesimo anno, 1627- entrambi oggi conservati presso la londinese National
Gallery- successivamente compresi nella collezione di Francesco Barberini, cardinal
nepote dello stesso Urbano VIII; essi costituiscono un confronto
pittorico tra i due artisti. Maestri d’arte già acclamati e protagonisti di
riguardevoli commissioni pubbliche -soprattutto il Bernini protagonista massimo
in S. Pietro, cui due anni più tardi ne sarà “,’l’Architetto” -, i due dipinti
possono essere individuati, in merito a questo argomento, quali lavori di una medesima
committenza, rifiutando perciò la “spessa” tesi di un’ideata forte influenza
del Sacchi sullo stesso Bernini, se non addirittura di una discepolanza del
secondo verso il primo.
Ho
accennato al cardinale Francesco Barberini (1597-1679), uomo di fine erudizione
e perciò di sottile pensiero che distinguono il suo agire; quando non volto alla
politica, commissiona e protegge il “fare arte”. Amante di studi letterari esterna poliedrici
interessi culturali e passione per le scienze, cosmo magnificato dalla sua
ricchissima libreria, che si accompagna con la consistente raccolta di dipinti
e con l’insieme di antiche preziosità. Un’abbondante varietà di piante rare definisce
il suo giardino e una sorta di, personale, spazio espositivo è dedicato alle
scienze naturali. Figura quindi caratteristica di questa feconda epoca, che approfondisce
la conoscenza del Bernini durante i lavori edificatori, da lui voluti, circa la residenza
della famiglia e avviati nel 1626, sotto la direzione del Maderno e con la fattiva
opera sia del Borromini sia del “nostro” Gian Lorenzo: palazzo Barberini. Sarà
proprio il Bernini che, in stretto rapporto confidenziale, consiglierà al
porporato l’acquisizione di alcuni dipinti.
Quanto
sinora articolato introduce nella definizione dei, peculiarissimi, modi
pittorici berniniani, che colgono versi, dell'arte di dipingere a lui
contemporanei, trasfigurandoli in cifra straordinariamente propria. Si
alternano, in un fondo monocromatico, toni caldi e tenui o limpidi e frenati,
che la tavolozza del Bernini, dalla scala uniforme, vi fa emergere un’ampissima
pluralità di modellati plastici contrasti. Sceglie quindi un linguaggio
“sperimentale”, organizzandovi intensi ritmi, che pervengono a una, consonante,
distruzione dei volumi assegnati alle figure per quanto attiva la sola
struttura cromatica. Della scuola veneta ne riprende, rimodulandola, la preziosità
del colore in un’accentuata libera stesura, che elargisce consistenza al
soggetto ritratto. Visivamente disgiunto, in questa precipua creatività
plastica, da quella “temeraria sostanza” del “bel composto”, Bernini vi
sancisce la sua primigenia idea dell’arte, intesa quale bellezza espressa nella
proporzione immaginata dal disegno, principio teorico fondamentale, cui
l’assenza determina il naufragio rappresentato dalla soverchiante fantasticheria,
ove si smarrisce l’originaria verità, naturale perché divina secondo il
concetto espresso nell’antichità. Idealità delle forme che scaturiscono dal
nitido disegnato progetto e dalla saldezza compositiva, pieni elementi
caratteristici della maturità di Annibale Carracci, indubbiamente sorgente di
alcuni specifici tratti stesi dal Bernini pittore, non a caso citato nel non
fortuito aneddoto già ripreso. Infatti, nella cifra stilistica, del pittore
bolognese, il lirismo abbraccia un’equilibrata monumentalità, dispiegando
cadenza timbrica nella fluidezza delle forme, lievemente cinte dal tenue alone
dello sfumato.
Il
Bernini dunque ne vibra, in personalissima chiave, una contestura sobria,
talvolta essenziale, in un accordo timbrico echeggiante la tenerezza incarnata,
dall’originalissimo classicismo carraccesco, in diverse raffigurazioni. Studio
diretto della natura, combinando il concentrato intelletto con l’essenza dello
stile, così il Carracci influenza il Bernini, il quale ne alleggerisce i giochi
chiaroscurali, imprimendo -in differenti lavori- ai raffigurati un tagliente
dinamismo.
Il
“nostro artista universale” ancora acuisce, di alcune invenzioni del Carracci,
l’assenza di qualsiasi riferimento a ciò che circonda i personaggi
rappresentati: nessun attributo ambientale, spaziale e simili viene descritto
nelle opere pittoriche eseguite. Ne discende che l’interiorità, la psicologia
delle figure viene rivelata dai soli volti e dunque ancor più è tratteggiata
una realtà che diviene verità poetica, per merito della quale allontana, il
Bernini, la sua pittura dalla mera derivazione. Le medesime vesti appaiono,
generalmente, effetti di colore, di liquida luce riflessa, che sembrano
slegarsi da precise trame tessute.
Nel
decifrare la pregnante determinazione pittorica berniniana, sorge un’ulteriore
ascendenza interpretativa critica, che ne rintraccia altri elementi nel
caravaggismo, o meglio quanto in esso la liricità regola l’estrinsecazione dell’esistenza,
avvicinandosi a una quasi dotta rappresentazione del vivere, non separato dal
sentimento. In tele di autori, compresi in tale forza pittorica, perciò vi è
traslato un luminismo accurato, attenuante un esasperato naturalismo, confermando
nondimeno solido vigore compositivo e forte tensione emotiva con nitidezza di
segno e, in vivace contrasto chiaroscurale, con repentini intensi accordi cromatici.
Se
il “nostro” Gian Lorenzo, quale pittore, s’impadronisce di tutti i su citati
versanti, la sua geniale prestezza li sopravanza attraverso il suo rapido
virtuosismo, per generare una metaforica visione del tempo, stretto alla
caducità dell’umana esistenza, che soltanto il sentire poetico -nei suoi ritratti
vivo, quale scopo, come in quelli degli apicali “maestri” -, riesce a essere
affermazione di respiro esistente nella realtà.
Sorprendente
accentuazione d’immediati moti che, dell’artificiosità ritrattistica, si
distingue l’insito impossessamento della natura attraverso l’arte, divenendo la
condizione di ciò che si manifesta reale.
La
raffigurazione di volti pertanto materializza la verità dei soggetti effigiati,
come un mostrarne la spinta del sentimento altrimenti celato. Ebbene la rappresentazione
assume elativa efficacia, di un concetto astratto, muovendosi, dal tocco del
Carracci e dal ritmo di certo caravaggismo, nella mimesi d’intimo soffio
emanato dall’anima o nel carattere esposto del personaggio. Con immediate,
asciutte pennellate -il più delle volte non curate nei minimi particolari-, il
Bernini disfa l’intendimento dell’icona ideata quale finzione, incidendo in
essa incorporea ma reale volontà psichica. Carattere questo derivato
dall’azione poetica nel modo anche del recitar cantando, ossia la parte
declamata della composizione vocale, il recitativo sorto nella seconda metà del
Cinquecento e in auge nel Seicento.
Temperie
che può definirsi, parafrasando il futuro Vivaldi, “cimento nell’invenzione” in
un contesto totalizzante; invenzione attivata dall’esperienza plastica ma
pregna di razionale improvvisazione, che raggiunge la capacità di vivere del
raffigurato ora composto, ora fremente. Urto d’interiorità che non mira a
destare artificiosamente clamore, ma che riceve possa, come fatto cenno,
dalla poesia e nel musicale suo magnificamento, poggiandovi saldamente
visualità pittorica, traendo a sé lo sguardo dello spettatore, in un’entità
a cui l’effigiato
appartiene e che prende e forte tiene il medesimo osservatore.
Dai
busti marmorei eseguiti ne prende lo studio del sembiante, dunque l’espressione
del volto, che nella pittura ne estremizza il superamento dell’effetto lezioso
-quando non realmente provato- del premente nobilitare la raffigurazione,
pertanto vincolata ad attribuire comunque, alla figura, lodi ed osannate virtù.
Sperimentazione berniniana pura che avanza, con destrezza, tra le
manifestazioni della natura, consolidando una rinnovata eloquenza di viva
impressione. Emozione che percepisce forme riunendo, in un “tutto” unico e
omogeneo, il respiro dell’anima e il getto dell’umana volontà, pingendo la
rivelata autentica subitaneità, sciente di quanto la tecnica, soprattutto
in questo lido, gli permette di inseguire ed afferrare la vitalità della
diretta conoscenza della fortezza, generatrice di tutte l’essenze.
Ritorna
una frase del Baldinucci:” ‘l suo dipignere, potiamo dire, che fu per mero
divertimento”; divertimento nella sua accezione etimologica, scaturita dal
latino “divertere: volgere altrove”, integralmente plausibile per la
pittura berniniana, che altronde è volta, vastità di completo libero
arbitrio e di esperimentazione plastica. Eliminando ogni accento metaforico
o simbolico, appalesa, nell’apparire del raffigurato, l’accidentalità di un
improvviso senso, fomento d’interiorità.
Non
deve però essere sottaciuta che il producimento dei dipinti del Bernini
sia, in buona misura, destinata, almeno inizialmente, a una propria
“esposizione domestica, familiare”, utile pur quale indagine psicologica,
incarnata in soggetti raffigurati, in cui il pensiero, contrariamente alla relativa
positura, è attivo, spesso fremente come poi gigantesca nel bel
composto, ove le membra scolpite magnificano l’impareggiabile resa dei
personaggi, nell’intensa luminosità di quegli ambienti palpitanti, fluttuanti
in arditezze architettoniche e plastiche, tra le vesti, ondose per la tensione
pervadente tutte le superfici, aperte, dal prodigioso trattamento del
marmo, con commovente moto della bellezza, illuminata da un divino biancore,
disceso dall’alto cielo della creatività sublime, divenendo sostanza tangibile separata
da qualsiasi metrica temporale.
Tra le
opere pinte riunite nella mostra, “Bernini” svoltasi tra novembre 2017 e
febbraio 2018, presso la Galleria Borghese, un’assoluta novità mai prima esposta,
suscitando enorme interesse: S. Sebastiano (segue immagine; le immagini sono tratte da Google). Dipinto
proveniente da una collezione privata romana, originariamente inclusa in quella
del cardinale Francesco Barberini, In esso sono tratteggiate, con efficacia e
vivacità, le essenziali linee della originale liricità pittorica berniniana.
Opera
inedita, cui la data di esecuzione rimane incerta (a mio giudizio collocabile
entro la prima metà degli anni Trenta del Seicento), cui l’attribuzione al
“nostro” artista si appalesa tesi condividibile, in virtù di quanto attualmente
è verificabile, altresì rilevando la citazione compresa in un inventario del
1649, inerente alla collezione dell’alto prelato Barberini:” Quadro con …
mezza figura ignuda S. Sebastiano alto palmi cinque e mezzo e largo quattro di
mano del Cavalier Bernino”, opera già considerata perduta. Oltre a ciò, sul retro
della tela, è apposto un sigillo cardinalizio Barberini, che ne attesta la
paternità a Francesco.
Diffusi appaiono i caratteri insiti nella tavolozza berniniana, che in tale lavoro accolgono lineamenti singolari, confermandone la varianza dell’attività creativa stesa con piglio estemporaneo, perciò rara e insolita. Il dipinto richiama, velatamente e parzialmente, un sentire derivato dal “Sansone in catene” (1594, circa) di Annibale Carracci (segue immagine), conservato nella stessa Galleria Borghese, ma da questo differisce, tra l’altro, per la liquefazione del tono cromatico non steso quindi come massa compatta.
Nel S. Sebastiano vi campeggia la lievità della capellatura, pressoché aeriforme e contrapposta alla poderosa energia dell’incarnato fisico, completandosi nell’abbreviata rattezza del panneggio, dal retro speculare alla scompigliata capigliatura. Pieghe di un tessuto che s’indurisce e, quasi indistinto dalla retrostante superficie, sembra convertirsi in autonoma e figurativa scultura, ma, come un prodigio della dynamis -la forza- metamorfosa la staticità in una serrata dinamicità, sebbene scarna, pertanto omogenea al generale tono della pittura. Tessuto che nell’indefinitezza è mirabolante effettuazione del fine contrasto tra la figura -troneggiante al centro della tela- e il fondo, non modificando il complessivo insieme cromatico (segue immagine).
La
rappresentazione è condotta in guisa sottile, mancante perciò della pletora di
frecce -ne contiene solo una appena accennata- infitte nella carne e nessun
fiotto sanguigno scivola sopra le membra. Il protagonista tuttavia è profondato
in un’atmosfera convulsa sebbene attutita dalla campitura, dagli sfumati
effetti, vicinissima alla, cupa, saturazione coloristica dei suoi capelli e
della stoffa stringente i suoi fianchi. La liquida espressione del volto,
intensificata dagli accigliati occhi, effonde un’aerea veemenza, un eroico
ardore distante da ogni cenno ieratico; energia erompente nel culmine
dell’azione piena di fervore, sicché colma di bollore, calore, indi ideogramma
iconologico del Bernini che appare, con plastica esclamazione, nei suoi lavori
scultorei. Frutto del suo levato ingegno, che compie la pienezza della
monumentalità, verosimigliante allo svolgersi della natura, percepita quale principio
vivo e operante. Da ciò il dipinto abbatte un’azione imprigionata nel disegno statico,
ed esattamente col ridotto colore fruttifica la visibilità del palpito introspettivo,
compiuto dall’intelletto del martire. Grandezza nei modi e negli scopi
interpretati, dalla sua arte, quando maggiormente enfatizza l’origine
passionale -inattesa- delle figure, asserita dall’impeto del santo, rinforzatosi,
per lineamento diviso in più parti, con l’obliqua positura, infondendo
allo sguardo dell’osservatore, di quello stato emozionale, una spinta
spirituale. Immaterialità espressa da quella corporeità quasi nuda, librata
sulla torsione fisica, regolandone intensità e timbro con ombreggiatura sulla
tesa chiaroscurata pelle, secondo la cifra del Bernini abile nel mantenere, ai
suoi eroici soggetti, la concreta morbidezza carnale della loro raggiante
rigogliosa età, ossia la giovinezza.
Immensa
qualità pittorica in un’omologia alquanto monocroma eppure così capace
d’impostare impalpabili sfumature, che rendono dettagliata vita alla
raffigurazione, con imprescindibile massiva sostanza monumentale, la quale
proferisce impressione di volumetrica grandezza, quale integrità morale, del
“campione” cristiano.
La
forma a “mezza figura” ne indica, in modo evidente, un’irrisolta compiutezza
-voluta-, che, malgrado ciò, distribuisce porzione di
adeguata imponenza alla scena, come se un’improvvisa incompletezza, esente dalla
frammentarietà, custodisse con gagliardia la totale ampiezza emotiva. L’asciuttezza
della “mano” e la scioltezza della pennellata arrivano alla dimensione e
foggia, del personaggio, attraverso l’esclusiva stesura cromatica come un’addensata morbidezza in un vaporoso atto. Questo S.
Sebastiano si staglia eroe evocando un moto sculturale e oratorio, risolto
in verso poetico e al tempo stesso corporeo, in narrativa schiusa teatralità con traboccante sentimento, in un’energica pietas: la disposizione
dell’animo ad avvertire devozione verso Dio. Opera conseguentemente penetrata
da un complesso d’intenzioni, tese a favorire interiori sensazioni volte al
culto, secondo il progetto religioso barberino.
In
tale lavoro -come in altri berniniani- la pittura viene sostanziata dallo
scultore, certificando la raziocinante ipotesi identificativa del suo autore,
poiché l’unione tra plastica eroicità e raffinatezza che, dall’astratta
materia, viene tramutata in carne, appartiene al Bernini, nella sua totalità
anzi nella sua universalità artistica.