Celato da un alto muro su un pendio del colle Gianicolo, il complesso di S. Maria dei Sette Dolori repentinamente appare, nella sua elaborata e distinta architettonica forma, allorché si oltrepassi l’esterno portale (segue immagine).
Imponente
edificazione voluta da Camilla Virginia Savelli, la quale nel 1641 acquista uno
spazioso fabbricato rurale, situato accanto a un terreno esteso sulle pendici
del Gianicolo, già donatole dalla cugina materna, la francescana Giacinta
Marescotti, futura santa (ricordiamo l’altare dedicatole in S. Francesco a Ripa
Grande). In tale luogo sorgono dunque la chiesa
e il monastero delle oblate agostiniane, secondo il proposito della medesima Savelli.
Emerge in lei la volontà di poter concretare la vocazione religiosa femminile,
espletandola senza la rigidità della clausura più stretta. Pur inglobando dunque
quel senso di spiritualità francescana, incentrata sull’intenso interiore
sentire, la pia nobildonna desidera concretare un’esperienza religiosa diversa, adottando perciò
la regola, meno “aspra”, delle Oblate Agostiniane. Il termine oblato -dal latino oblatus, da oblatus
“offrire”- indica, in generale, coloro
che, attraverso la vita monastica, agiscono con “dedizione in servitù” (oblatio)
nella donazione completa di se stessi a Dio, consacrandosi a Cristo. Infatti, la
fondatrice di questo monastero pone quale scopo, delle “sue Oblate”, una forte
azione caritatevole, secondo quanto lei stessa si adopera tra poveri,
diseredati, infermi, di Trastevere. Progetta altresì la costruzione di un ospedale
attiguo, al costruendo complesso, però una serie di avversi eventi e la
maggiore presenza di religiose di nobile origine, la indirizzano,
prevalentemente, verso l’educandato, vale a dire l’opera di istruzione per le fanciulle soprattutto povere,
accogliendo altresì anche quelle sofferenti per qualche infermità, non
contagiosa, “rifiutate” da altri monasteri.
La volontà, della
duchessa Savelli, di enunciare la salda elevatezza della sua opera religiosa,
che si propone di accogliere un gran numero di donne, sia votate all’attiva
spiritualità, sia bisognose di concreto aiuto, individua,
nel Borromini, l’architetto a cui assegnare la realizzazione, architettonica, del
superbo complesso di S. Maria dei Sette Dolori (1642). I lavori iniziano
nel 1643 proseguendo sino al 1646, con edificazione della parte centrale circa
il prospetto (compreso il portale) e quella laterale sinistra. Probabilmente,
per i concomitanti incarichi inerenti alle fabbriche dell’Oratorio dei Filippini, di S. Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) e
di S. Ivo alla Sapienza, l’architetto ticinese non cura, adeguatamente, la
direzione dell’opera costruttiva di questo complesso, sino ad abbandonarlo
(1646 su citato), benché il progetto sia quasi definito -in disegno- in tutti i
suoi particolari. L’edificazione, ad ogni modo, in breve tempo riprende -la
chiesa è completata nel 1652- per essere finanziata, successivamente, dal duca Pietro
Farnese, marito di donna Camilla, attraverso la vendita di una vasta proprietà
terriera (1658). Sarà Francesco
Contini a completare i lavori (1658-1667), con palese il richiamo al Borromini, sebbene mancanti
dell’ornamentazione esterna, proprio -come si reputa- per carenza finanziaria.
Un ambiente celato mostra
l’ingenita raffinatezza, degli spazi interni, dell’articolato edificio, formato
dalla chiesa e dall’annesso convento -quest’ultimo oggi trasformato in un
rinomato hotel-: la Sala Nobile, “condotta” dalle oblate agostiniane
come la stessa chiesa (segue immagine).
Questa
opera plastica espone, però in cadenza raccolta, meditativa, quella immagine
ove la Vergine è attraversata, trafitta -altresì in evocante chiave-, dal
dolore quale compartecipe
della passione di Gesù Cristo. Per interpretarne dunque la sostanza pittorica, occorre
perciò volgersi al culto, a cui essa si volge ed esprime.
La devozione alla Vergine Addolorata
scaturisce dalla lettura, di alcuni passi, inclusi nel Vangelo di Giovanni (capitolo
19, versi 25-27), in cui è citata la presenza della Vergine ai piedi della
Croce. Culto molto diffuso dalla fine del secolo XI, per l’operato di S. Anselmo
(dottore della Chiesa; 1033 o 1034–1109), di
S. Bernardo (1090-1153) e soprattutto dello sconosciuto -a tutt’oggi- autore
del Liber de passio Christi et dolor
et planctu Matris eius (Libro
della passione di Cristo e anche del dolore e del pianto di colei che ne è la
Madre), erroneamente
attribuito in passato allo stesso S. Bernardo. Con il Liber inizia
una cospicua esposizione letteraria, in diversi paesi europei, incentrata sul Pianto
della Vergine. Da ciò deriva il celeberrimo Stabat Mater (Madre che sta ai piedi della Croce), cui già
l’inizio ne definisce la tragicità della composizione, attribuita, ormai
definitivamente, a Jacopone da Todi (?-1306): Stabat Mater iuxta crucem lacrimòsa
dum pendébat Filius. Cuius ànimam geméntem contristàtam et dolèntem pertransívit
glàdius … (La Madre addolorata stava
in lacrime presso la Croce mentre pendeva il Figlio. E il suo animo gemente, contristato e dolente era trafitto
da una spada …). Densa devozione che si
effonde tanto da originare la ricorrenza dei Sette Dolori di Maria
Santissima ed infatti, nel XV sec., avvengono le prime cerimonie cultuali
della Compassione di Maria ai piedi della Croce, celebrazione poi molto
divulgata benché priva del distintivo segno d’universalità, sancita dalla Chiesa.
Trascorreranno circa quattro secoli, affinché sia proclamata festa liturgica
“universale”, quindi in tutta la stessa Chiesa (1814), da Pio VII, soprattutto quale
ringraziamento per l’affrancamento suo e dello stato pontificio dal gioco
napoleonico. Fissata inizialmente alla terza domenica settembrina, nel
1913 Pio X ne stabilisce la definitiva data al 15 settembre, consacrandola
alla Beata Vergine Maria Addolorata.
Il formidabile eco dello Stabat,
durante l’avvicendarsi dei secoli, ispira altresì numerosi musicisti che ne realizzano mirabili componimenti; citandone
alcuni si avverte la vastità di tale drammatico tema: Giovanni Pierligi da
Palestrina, Alessandro Scarlatti, Domenico Scarlatti, Antonio Caldara, Giovanni
Battista Pergolesi , Tommaso Traetta, Agostino Steffani, Joseph Haydn, Luigi
Boccherini, Giovanni Paisiello, Saverio Mercadante, Gioachino Rossini, Franz
Schubert, Franz Listz, Giuseppe Verdi, Francis Poulenc e altri.
Al dolore della
Vergine il portentoso edificio, eretto all’inizio del Gianicolo, si dedica,
rammemorando i sette che, durante l’esistenza, l’avvinghiano. Quale proemio che
li precede, come squarcio di cieli non più trascendenti ma riversati in una
realtà tutta umana, si staglia la profezia
dell'anziano Simeone sul Bambino Gesù: “A te stessa una
spada trafiggerà l’anima” (Vangelo di Luca, capitolo 2, verso 35). Questo è
il vaticinio rivolto alla Vergine da Simeone, pronunciato a chiusura del
cantico con il quale innalza la sua lode al Salvatore (nell’episodio che narra
la presentazione del Bambino, da poco tempo nato, al Tempio di Gerusalemme),
alla Sua azione futura di giustizia “causa di rovina” per gli empi, “di
resurrezione” per la moltitudine, che a Lui si assegna ascoltandone e
praticandone gli insegnamenti. Una lettura “tradizionale” consegnerebbe, a
Maria, soltanto il suo strazio a venire, che la percuoterà ai bordi della
croce, laddove invece, quell’arma appuntita profetizzata, avrà forza di svelare
la purezza o la corruzione “di molti cuori” e a causa di tale agire
sorgerà il martirio sul Calvario, da cui s’innalzerà la resurrezione di Cristo
prima e, dei giusti in Cristo, alla fine dei tempi: “Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: Egli
è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di
contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una
spada trafiggerà l'anima.” (Vangelo di Luca capitolo su citato, versi 34-35). La Vergine quindi -secondo un’interpretazione scevra di una
limitante visione-, nel suo dolore acuto per il martirio del Divino Figlio, col
trafiggente sofferenza aprirà, per prima, l’anima alla resurrezione del Messia.
La Vergine, che condividerà con il Cristo alcuni “aguzzi tratti” percorrenti la
Sua vita umana. Da essi la “doglianza” patita nella fuga in Egitto, durante
la strage dei bambini ordinata dal re Erode (Vangelo di Matteo capitolo 2,
versi 13-22). L’angoscia per la sparizione di Gesù
Cristo, dodicenne, ritrovato, dopo tre giorni, nel tempio di Gerusalemme (Vangelo di Luca 2:41-51). Inoltre, l'incontro tra Maria e
Gesù Cristo lungo la salita al Calvario, episodio non indicato nel vangelo di Luca, che fa
riferimento a “una gran folla di popolo e
di donne”, le quali seguono Cristo battendosi il petto con gran lamento, ma la tradizione ne vuole, come razionalmente
ipotizzabile, anche la presenza della Vergine. Ella segue il Figlio sino ai
piedi della croce su cui viene crocifisso “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella
di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre
e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco
tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quel momento il
discepolo la prese nella sua casa” (Vangelo
di Giovanni capitolo 19, versi 25-27). Ancora un’acutissima afflizione, la Vergine accoglie nelle sue braccia Cristo morto,
prima che sia sepolto; scena definita Pietà, descrivente un episodio non contenuto nei Vangeli –ma
anch’esso oggettivamente plausibile-, vale a dire quel doloroso raccoglimento della
Vergine, sul corpo del Figlio morto. Vicenda composta dal sentimento
appartenente alla forte devozione e alla salda spiritualità, soprattutto vivida
in Italia e in Germania (per tale argomento rimando al mio post del 23
giugno 2018 “La Pietà, affresco di Perin del Vaga in S. Stefano del Cacco:
considerazioni”). Infine, Maria assiste al seppellimento
di Cristo Gesù; anche questo episodio
non è menzionato da nessun Vangelo -ma ragionevolmente
verosimile-, desumendosi solo dal testo di Giovanni, in virtù della presenza della
Vergine accanto alla croce, sulla quale è inchiodato il Messia.
L’immagine quindi di Maria, attraversata
da un vorace patimento, ha dato vita alla voluminosissima mole devozionale e
artistica, espressa attraverso rappresentazioni poetiche, musicali, plastiche,
versante in cui, come già in precedenza accennato, altresì il Benfial (1684-1764)
si cimenta su commissione, però secondo un particolare sentimento.
La sua nascita in Roma -da genitori francesi
-, essendo incline alla pittura sin da bambino, lo consegna alla bottega di
Bonaventura Lamberti, pittore molto attivo in ambito romano, dall’impronta
linearmente “classica”, che interpreta la formidabile lezione soprattutto di
Annibale Carracci. Perciò il quattordicenne Benefial dirige il suo imberbe
percorso verso lo studio di Raffaello e della scuola bolognese, cui i Carracci
sono tra gli apici. Successivamente al 1703 iniziano i primi timidi passi della
sua autonoma realizzazione pittorica, seppur in modo graduale e difficoltoso;
infatti, solo nel 1716 emerge, nella “Città Eterna”, il suo estro in “divenire”
eseguendo il S. Saturnino per la basilica dei Ss. Giovanni e Paolo al
Celio. In tale periodo si rivela densa la sintassi marattiana nei suoi lavori,
come dimostra anche la tela in S. Maria dei Sette Dolori.
Lavoro
eseguito nel 1721 che, seppur pregno del respiro, come
detto, soffuso da un verso del Maratta, già però annuncia il suo vivido
rappresentare, con peculiare compattezza, l’insieme degli elementi cromatici,
stesi in colori scevri di esagerate “iridescenze” che emettono soltanto vacui
effetti; al contrario il Benefial combina una pittura delicata, schietta e
misurata. Si avvia così la sua cifra
stilistica a contraddistinguersi in quegli anni, a Roma, attenta
al particolare, senza mai perciò a cedere a divagazioni meramente decorative, a
futili orpelli.
In tale dipinto il Volto
Santo si mostra decisamente scuro, pressoché nascosto, in una sorta di rossastra
macula, mentre la Vergine, nel suo composto e raccolto dolore, è attorniata da
angeli, che come un coro tengono, teneramente, tra le mani gli strumenti della
Passione; misurato insieme da cui scaturisce però un’originale potente
intensità drammatica, un acceso commosso
sentimento affettivo, che non tracima in un’artefatta compassione estetica.
L’evidente tendenza classicheggiante -nell’artista
viva molto- inizia a non imprigionarsi nel freddo e “corretto” formale disegno
accademico. Quel rossastro funebre panno, retto dalle delicate -non languide- figure
angeliche, sembra unirsi al manto della Vergine. La ricercata dolcezza, lo
studiato amabile aspetto non straripa in una morbidezza descrittiva, al contrario
la trama delle suggestioni, sapientemente articolate, ne appalesano la sostanza
di pittura governata con padronanza, tra armoniosi scelti accordi cromatici, rifuggenti da intenti meramente
celebrativi.
Tutta la composizione appalesa il ponderato
tenore emotivo, nobilmente contegnoso, attraverso una vibrante grazia, la quale
poeta la sobrietà, di quell’alato coro, che cinge in levità la Vergine,
raffigurata con posa di profonda meditazione, svellente ogni artificiosa
tragicità, mostrando, all’osservatore, quanto sia consapevole compartecipe a
quel sacrificio messianico, che sul Golgota si è compiuto (segue immagine tratta da Google).