Roma Insueta deriva da quel mio ricercare, nell’arte, la sensibilità incandescente che trapassa il mero concetto “dell’idea”, seppur mostrata per mezzo di ciò che lo stesso artista, in maniera quasi istintiva, spontaneamente solleva con la sua intrinseca espressione, lanciata con intensità nella pienezza dell’azione creativa. Realtà quindi acuta del vivere nell’arte, infinito impeto che dissuggella altezze vertiginose, dove il respiro abbraccia il cosmo dei sentimenti, che in tal modo si svela all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore. Esistenza nell’arte, interminata intensità che non soccombe alla scarna apparenza, effondendosi in elementi che armonizzano il passato e il presente, in un gioco accogliente moti contrapposti, cui la complessiva e complessa presenza crea una forza sostanziata in forme, irradiate per e dalla vita artistica. Roma, attraverso le acutezze artistiche che la sua, rigogliosa, storia ha impresso negli sguardi di ogni epoca, sostanzia questa spontanea spinta emotiva, che l’intelletto coglie con vivacità sino a mutarsi in vivido sentimento, per giungere a quei lidi ove anche una lettura altra si manifesta.

Io Spiego

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martedì 29 ottobre 2024

La figurazione della donna in Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino. Alcuni esempi: Venere e Amore, due versioni della Sofonisba morente

 

In merito a Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666), il mio blog comprende due post. Con il primo (13 febbraio 2015) ho illustrato le quattro tele esposte nella mostra di Palazzo Barberini “Da Guercino a Caravaggio” (Et in Arcadia Ego, Incredulità di S. Tommaso, Ritratto del Cardinale Bernardino Spada, Sibilla Persica), mentre ho incentrato il secondo sulla raffigurazione della Maddalena penitente (28 settembre 2020) -ad oggi il nono scritto più letto-, con passaggi circa la sua biografia, cui ne rimando la lettura.

Il corrente anno 2024 rappresenta una “dovuta” celebrazione del Barbieri, come attestano le due mostre svoltesi, rispettivamente, alla Pinacoteca Nazionale di Bologna (Guercino nello studio) e ai Musei Reali Torino – Sale di Palazzo Chiablese- (Guercino. Il mestiere del pittore). Inoltre, il 31 ottobre inizierà quella programmata alle Scuderie del Quirinale, in Roma (Guercino. L'era Ludovisi a Roma).

Nei dipinti del Guercino -riprendendo un passo del mio post su la Maddalena penitente- la donna, nelle diverse espressioni rappresentate, vi riflette una concretezza che diviene musica, contenuto costruito su un concetto morale, accento pacatamente mistico, aspetto esoterico; perciò la raffigurazione muliebre sostanzia il tramite per una vasta visuale escludente la quotidianità, un modo appropriato per rappresentare il divino, l’idealità lucente. Tale visione distingue, nel divenire della vita - transizione da uno stato all’altro-, ciò che sorge insolito come ardente esposizione cromatica, che eleva l’esistenza, tale da donare reale respiro a quel sentimento di pieno affetto, svelato dalla donna. Insieme di virtù (quale eletta forza) palesi e alte, così espresse dalla bellezza fisica, sino a mostrarsi sovrana concreta condizione, della realtà altra, nella sua assolutezza muliebre, percezione piena nella conoscenza, luce colma di giovinezza mai offesa dal tempo.

Nel Seicento la figura femminile continua ad essere avvertita entro determinati ambiti, tra i quali si stagliano quella spirituale e quella detta “magica-stregonesca”. L’acuto bene e il demoniaco male vi si contrappongono, apparendo incoerenti -soprattutto nel secondo aspetto- con il concreto divenire “dell’essere”. In tale contesto negativo, il Guercino, elabora alcune disegnate raffigurazioni fantastiche (alcune prossime al macabro), spesso grottesche, talvolta, per l’appunto, con personaggi femminili. Disegni però separati, non riscontrabili in ciò che egli effigia nei dipinti.

Temi relativi al mistero, alla “dimensione inspiegabile” catturano altresì -ma in elevato tono- gli ambienti artistici, letterari e dunque pur un eccelso disegnatore, come il Barberi, tratteggia, su elaborati fogli, simili figurate sue riflessioni. Momenti diversivi quindi appaiono quei disegni dal carattere “sinistro”, considerando il denso esplicito sentire religioso, canonico, dell’artista.

Invero, il Guercino appare personaggio morigeratissimo, quasi un uomo avvolto da uno sentimento di profonda religiosità sacerdotale, come afferma Carlo Cesare Malvasia nella Felsina Pittrice. Vite de pittori bolognesi (1678, tomo secondo):”inimico della bugiaumile, compassionevole, religioso, casto. Frequentatore de’ Sacramenti, amatore de’ poveri Dicea ben di tuttiFu stimato vergine, e parea tale dall’aspetto florido, ed alla polizia della sua vitavissecon gran timore di Dio, onde morì ancora come un Santo”.  Di fatto non si coniuga con alcuna donna e nemmeno si possiedono notizie circa sue storie amorose, cionondimeno le donne rappresentate nelle sue opere, spesso rivolte a un’intima platea, appalesano un’intensa visione nutrita per la raffigurazione muliebre.

In merito alla religiosità propria del Barbieri, non si devono escludere -come dimostrano diversi suoi lavori pittorici- alcuni “influssi” con complesse visioni filosofiche, proprie altresì di eminenti personaggi religiosi, pur nell’attenta combinazione con i postulati della Chiesa. Infatti, il Guercino frequenta l’erudito e l’estroso religioso Antonio Mirandola, autore di scritti peculiari dal manifesto humus paradigmatico, figurato, di etica interiorità (Gabella della Morte, 1635; Hostaria del mal tempo, 1639) con frontespizi -dal tono inquietante il primo- disegnati dal Barbieri e incisi da Francesco Curti.

Di questo particolare magma sapienziale, connotante il Rinascimento e il “Barocco”, che approda almeno sino ai primi due decenni del Settecento, il Guercino ne espone ampi elementi, sgorgati da quel particolare clima, pregno di versi alchemici-esoterici-filosofici. La sua efficace mano possiede sostanza penetrante ed espressiva, come, ad esempio, magnificamente pronuncia l’affresco a tempera dell’Aurora (1621), che dona il nome all’ambiente, ove troneggia, nel Casino Boncompagni Ludovisi in Roma (altri dipinti “guercineschi” vi sono compresi, complesso “tragitto” di vivido “sapere   altro”). Ulteriore paradigma di questo velato linguaggio, insito spesso nella pittura del Barbieri, leggibile -nelle intenzioni dell’epoca- soltanto da “iniziati”, poiché la sapienza richiede un percorso irto e difficoltoso, è compiuto dalla Diana Cacciatrice (1658; Roma, Collezione della Fondazione Sorgente Group).

Compitezza spirituale, graduale viaggio purificatore attraverso cui si abbandona il quotidiano materiale sentiero, per innalzarsi verso l’ètera, la somma vetta incontaminata e fulgente dello spazio celeste, incorruttibile apice di cui è formata l’essenza delle relative sfere, cui il consapevole rivolgersi dell’uomo ne svela la sua propria primigenia natura e dunque ne riacquista il respiro infinito e immortale. 

La cifra stilistica del Guercino è illustrata, dal su citato Carlo Cesare Malvasia, nella medesima Felsina Pittrice:”… ma ben si possa affermare, tale per l’appunto averne veduto l’effetto, quando il suo tingere di forza parve d’ogni altra più fondata manieraEbbe egli un fare a quello di Guido (Reni) contrario ed opposto, che dove questi della vaghezza troppo forte fu vago, della fierezza mostronsi egli seguace; e ripigliando del Caravaggio il colorire forte, e la naturalezza, l’abbellì con molta correzione, v’aggiunse più grazia si dilettò egli di rinforzarli (i colori, riferiti ad altri “Maestri”), perché esorbitassero, così moderandone però con giudizio l’ardire, che ne rese anche gradito l’eccesso. Ciò che fu in altri accidentale talvolta necessità, diventò nelle sue mani naturale elezione, rappresentandoci sempre le immagini come di notte percorsi dal lume, ò di giorno illuminate dal Sole”.

Già nelle sue prime opere, il Guercino, si distingue attraverso una pittura concretata con piene pennellate insieme a un’energica resa chiaroscurale, esclamante vividi effetti plastici, di elevata espressività delle immagini, tramite eterei paesaggi, “ambienti atmosferici”, i quali imprimono lirica autenticità e raffinatezza alle figure, che comunicano un distintivo sentimento. Egli esprime le scene dipinte con piglio espressivo, vigoroso, altresì con rappresentazioni concretate delicatamente e accarezzate da luci morbide, diafane, unendole a capaci contrasti chiaroscurali, questi maggiormente stesi nel suo periodo giovanile, mentre la tavolozza si palesa più quieta e con gamme dai toni più chiari, in modo progressivo, dalla maturità in poi, aggiungendovi una spiccata monumentalità dei personaggi.

La sua cifra stilistica viene sospinta soprattutto da pittori emiliani (egli è natio di Cento, nel ferrarese) dal deciso temperamento artistico e in particolare da Ludovico Carracci (cugino dei fratelli Agostino e Annibale Carracci). Lo stesso Carracci, dunque eminente pittore bolognese, individua -tra i primi riconoscimenti- la mirabile padronanza plastica del giovane Guercino, come attestano sue lettere del 1617, in cui egli lo menziona più volte: "si porta eroicamente ... dipinge con somma felicità d'invenzione. E gran disegnatore e felicissimo coloritore; e mostro di natura e miracolo da far stupire chi vede le sue opere".

Altra fondamentale esperienza, per il giovane pittore, si rivela il soggiorno a Venezia (1618), dove          assorbe, nei suoi studi, le opere dei magistrali artisti del secolo precedente, venendo particolarmente impressionato dalla pittura di Tiziano Vecellio.

Tra le genesi dei suoi periodi creativi, si nota la lezione di Guido Reni, progressivamente sempre più evidente, tramite che gli permette di tradurre, con elevata personalità, stesure dalla corposità “barocca” ma entro una distribuzione degli elementi pittorici rigorosi, sebbene ricercati, esponendo un pregevolissimo uso del colore, derivandone pregnanti strutture compositive, ove eufonicamente si armonizzano temi e motivi, realizzando perciò una sorta di "classicismo barocco".

In merito al Caravaggio, l’ascendente artistico sul primo stile del Barbieri vi appare di poco peso. Difatti, le tonalità cupe e l’incisivo grave contrapporsi di luci e di ombre, modello distintivo nei dipinti del Guercino, antecedente al suo primo certo soggiorno romano (1622), appare sviluppato indipendentemente dall’arte del Merisi, potendosi invece considerare un accostamento a certe caratteristiche incluse nelle opere di Ludovico Carracci (colmi contrasti di luce e di movimenti).

Il Barbieri è considerato dunque uno dei pittori maggiormente paradigmatici, nell’alveo del ciclo apicale del “Barocco”, per la sua perizia tecnica e per la singolarità della sua pennellata. Le sue realizzazioni appaiono completamente scevre da pesantezze e da opacità, caratterizzate, per l’appunto, dal forte contrapporsi di luci e di ombre oltre che da leggere sfumature, pregne però di lucente aria. Insieme di attributi ma tali da non definire capacità creative, sommamente esplicitate dal Caravaggio, al contrario vogliono trasmettere un fresco rigoglio e un’estesa tersità, contrassegnanti componenti fra tocchi dal brillante e deciso colorito, dialogo, si ribadisce, tra effetti di luci e di ombre.

Ritornando sul sentimento, del Guercino, verso l’universo muliebre, egli effigia giovani donne -spesso molto giovani nella sua prima fase artistica- per poi dipingerle altresì prossime alla maturità, però mai discoste dalla nobile bellezza, dalla cangiante leggiadria, le quali emanano, in virtù del tema rappresentato, una suprema varietà di affetti e toccanti inni spirituali. Avventi, sensuali donne abbigliate di purezza, dalle lunghe brune mosse chiome, che coinvolgono l’osservatore con la loro tangibile candida sensualità, qualcuna probabilmente “ripresa dal vero” (certa, attualmente, solo quella che ha dato le fattezze alla Susanna e i vecchioni -1617-, oggi conservata presso il madrileno Museo del Prado), pur se non esiste alcuna fonte documentaria.

La figura muliebre diventa perciò il chiaro tramite per una realtà suprema, una raffigurazione vivida esprimente il divino, l’essenza della lucente natura insita in nascoste verità, dunque l’ètera di cui precedentemente si è detto. A questo riguardo appare opportuno menzionare brevemente che, l’aggettivo latino “divinus” deriva dal sostantivo “divus”, e questo da “deus” (dio), esprimendo il concetto di luce (straordinaria), dalla radice indoeuropea “div” (splendere).

Visione sapienziale che concreta un tramite di grazia, vale a dire elevatezza attraverso l’espressa leggiadria. Il ritratto femminile del Guercino esprime la visione di grazia sublime e dunque altra.

Quanto finora enunciato preannuncia, quali esempi, le tre pitture oggetto di questo post: Venere e Amore, due versioni della Sofonisba morente.

Venere e Amore

(le tre immagini contenute, in questo scritto, sono tratte da “Google immagini” prive di indicazione circa il relativo copyright)


Nella Felsina Pittrice il Malvasia afferma che, nel 1632, il Guercino “dipinse una Venere a fresco” nella villa “La Giovannina”, una delle proprietà appartenenti al conte Filippo Maria Aldrovandi. Nobiliare residenza, poco distante da Cento, che, il suddetto nobile, vuole decorare in onore del suo matrimonio con la marchesa Isabella Pepoli (1617). Si reputa, il dipinto, quale relativo dono di nozze dello stesso Barbieri, poiché lavoro non indicato sul suo Libro dei conti. Ipotesi questa avvalorata dal rapporto amicale intercorrente tra il Guercino stesso e l’Aldovrandi. Ultima opera murale ad oggi conosciuta, eseguita “a fresco”. Venere e Amore in origine è sita sopra il camino nella stanza ornata con Storie di Clorinda (personaggio della Gerusalemme liberata del Tasso, la valorosa guerriera saracena, dall’elevato animo). Strappata dalla parete intorno al 1786 e riportata su tela, condotta e posta nella dimora bolognese della nobile famiglia, il dipinto è successivamente donato a Gregorio XVI (1831-1846). A sua volta il pontefice affida l’opera alla Pinacoteca Capitolina, la quale poi raggiunge la collezione dell’Accademia di San Luca (1836), dove tutt’oggi è conservata.

Questo dipinto -restaurato nel biennio 2014-2015- si pone al termine del periodo ritenuto di transizione del Guercino (1623-1632), in cui gradualmente inizia a mutare la sua cifra stilistica, assumendo versi impregnati di classicità.

In un sereno paesaggio, la dea, soavemente seduta a terra e graziosamente poggiata su pregevoli cuscini, volge il suo materno sguardo ad Amore, il quale, in volo, dopo aver trafitto il cuore infiammato, inciso sul tronco d’albero, sta per scoccare un secondo dardo dalla sua ornata faretra. Immagine di fitta simbologia -che declina ogni banale significato, per erigersi verso l’altrove-, dacché il cuore, in chiave simbolica, è l’organo germogliante la conoscenza, sede perciò dell’intelletto, dei sentimenti e dell’attiva volontà. Nei testi biblici esso raffigura l’uomo interiore come esemplifica il primo libro di Samuele, cap. 16, vers. 7: “l'uomo guarda all'apparenza, ma l’Eterno guarda al cuore”.

Ancora, si legge nell’epistola agli Efesini, cap. 3, vers. 17-19: “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”. Simbolo, certamente legato all’amore terreno, ma quel cuore esemplifica l’altra sua concettualizzazione simbolica, che alberga nel divino e nel mistico, divenendo altare nel quale sono distrutti, dal fuoco dello Spirito Santo, i vili desideri carnali.

Sulla figura di Venere sorge, quale esemplificazione, un passo -dedicato ad Afrodite- degli inni del filosofo neoplatonico Proclo (V sec.):” Cantiamo le emanazioni dai molti nomi di Colei che è nata dalla schiuma e la grande Fonte regale, da cui tutti gli alati Erotes immortali sono sorti, di cui alcuni colpiscono le anime con frecce noeriche (la noesi, conoscenza per intuizione del vero nella sua assoluta e immota forma e unità dei suoi molteplici elementi)  in modo che, essendo stati prese dai pungoli del desiderio che conducono in alto, aspirino a rivedere le fiammeggianti sale della Madre …  Ma, Dea, poiché Tu sei Colei che ha un orecchio che sente da lontano in ogni luogo, sia che Tu avvolga il grande Cielo tutt'intorno, dove, come essi dicono, Tu sei l'Anima (l’Afrodite quale anima universale) divina del Cosmo immortale, o che dimori nell'Etere sopra i cerchi delle sette orbite mentre versi Poteri invincibili nelle Tue emanazioni, ascolta, e possa Tu guidare il faticoso percorso della mia vita, Signora, con le Tue frecce più giuste, ponendo fine al freddo impulso dei desideri non sacri”. Inoltre, ripercorrendo il Platonismo, s’innalza Urania, l’Afrodite celeste, che rappresenta la forza dell’amore, la quale investe e lega tutte le parti dell’universo, perciò dea dell’amore caelestis, puro e ideale. Pagina pittorica quindi di elevatissima intuitiva sapienza filosofica e spirituale.

Pittura incardinata su forme vigorose dall’acceso e profondo colore intenso, che però, come in precedenza accennato, già comprende attenuate sfumature, le quali nutrono un evidente equilibrato assetto, approdando a un annuncio di sobrietà compositiva specifica della visione classicistica. Infine, si rivela la seminuda Venere-Afrodite, nobilitata e liliale con le sue floride membra, dal dolce sguardo genitoriale rivolto ad Amore-Eros, accompagnandolo, nel suo atto, con soave sentimento. Si scorge, sul lobo dell’orecchio visibile, un orecchino formato da una perla (tra gli “attributi” di Afrodite, sorta dalla schiuma marina). Monile, “tratto” dalla conchiglia, già simbolo della celata conoscenza e del sapere esoterico, viene incluso nel Fisiologo. Opera di un ignoto alessandrino del II sec., ipotetico naturalista Physiologus. Per mezzo di esempi desunti dal regno animale, illustra e diffonde, in sostanza simbolica, l’ampia dottrina del Cristianesimo. In realtà, lo sconosciuto autore, appare aver profonda conoscenza dei testi sacri ma non di scienza naturale, considerando le fantasiose sue osservazioni, anche se molto significanti in seno all’universo simbolico. Il “trattato”, durante il Medioevo, è oggetto di varie aggiunte. In tale scritto è riportato che:” Si trova nel mare una conchigliaEssa emerge dal fondo del mareapre la sua bocca e beve la rugiada del cielo e il raggio del Sole, della Luna e delle stelle, e per mezzo di quelle luci superiori porta a compimento la perlaLe due valve della conchiglia sono l’Antico e il Nuovo Testamento, mentre la perla rappresenta (l’esito dell’azione messianica) il nostro Salvatore Gesù Cristo”. Simbolo quindi di sacralità rivelata, di redenzione. Concezione pulsante nell’Inno della Perla o Inno dell’Anima, componimento concretato ad Edessa -oggi Şanlıurfa nel territorio turco-, intorno al III secolo circa. Scritto originariamente in lingua siriaca, si diffonde in Occidente attraverso una traduzione in greco. Si ipotizza che l’autore sia gnostico siro Bardesane, vissuto tra il II e III sec., che fonde le due tradizioni -orientale e occidentale- in un sincretismo, tramite della sua concezione del Cristianesimo, a cui si converte mantenendo però la sua peculiare visione, considerante la realtà terrena come una commistione tra tenebre e luce, fra corpo e anima, che solo un processo di purificazione ne permette il riscatto spirituale. Inno dove è narrato un particolare viaggio alla ricerca della Perla (l’illuminazione), custodita da un drago. Il suo possesso -ricordando l’abisso marino, da cui essa proviene- indica il tragitto di ascesa attuato dall'anima pervasa dalla gnosi - la conoscenza rivelata delle realtà divine-, percorso che raggiunge il vertice riacquistando i primigeni elementi divini, fagocitate dal tenebrore, la diffusa oscurità. Difatti, il protagonista della vicenda, estrae la perla da una cavità, coperta dalla sorgente custodita dal tremendo drago. In tale narrazione si ribadisce che, questo gioiello, ritrae la massima virtù (dall’etimo latino dichiarante "forza, coraggio"). Dote da recuperare -figurazione simbolica- affinché si rigeneri l’anima, precipitata in un globo terrestre, giudicato maligno e tenuto stretto da tenebre legate all’ignavia, che soverchia, sino ad annientare -qualora non avvenga il risveglio interiore- la luce connaturata all’uomo, quale essere creato da Dio, strappando così lo spessissimo manto intessuto da demoni. Nei secoli successivi saranno confermati, alla perla, altri simili proprietà simboliche, come quella che l’associa alle lacrime, immagine figurata di virtù -nel significato sopra espresso-, tempranti gli spiriti vitali partoriti dal cuore. Infine, ogni secolare argomentazione gli ascrive, per la sua forma sferica, la proprietà della perfezione e dell’eternità, a motivo del cerchio, privo d’inizio e privo di fine.

La figura femminile, ritratta dal Guercino, assume dunque in sé tutte queste distintive essenze, bandendo letture superficiali di mera ornamentazione pittorica; all’opposto, per mezzo del suo poetico estro, esprime “valori” di sottile e incisiva rilevanza, coerenti con la sua visione, affermata da questo affresco, celebrante la reale identità di Afrodite-Venere, interpretabile quale codice dedicatorio, del nobile Aldrovandi, alla sua sposa, Isabella Pepoli, vista come donna sublime.

 

Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Venere e Amore, 1623, pittura murale riportata su tela, Roma, Accademia S. Luca



Sofonisba nuda morente

Il dipinto -olio su tela; Roma, Collezione Mainetti- effigia la drammatica fine della regina cartaginese, Sofonisba, che secondo la tradizione romanzata, raccolta da Tito Livio -autore della celebre storia di Roma, iniziata tra il 27 e il 25 a. C. e scritta sino alla morte dello storico latino, 17 d.C.- beve coraggiosamente il veleno contenuto nella coppa, offertale per non cadere nel bottino di guerra romano. Opera definitivamente ascritta al Guercino nel 1999.

Figura quindi famosa in epoca romana, come testimoniano due pitture pompeiane, la sua tragica vicenda -già cantata dal Petrarca- gode di grande fortuna nella letteratura del Rinascimento e pur successivamente. Invero, soggetto del componimento letterario Sofonisba di Gian Giorgio Trissino (pubblicato nel 1524), primo esempio della tragedia classica italiana. Episodio narrato altresì in opere letterarie francesi e inglesi. Nel 1789 appare la Sofonisba di Vittorio Alfieri. Questo personaggio viene ripreso da diverse opere musicali, composte nei secoli XVII e XVIII. Fra queste si rammentano quelle dell’inglese Henry Purcell (1659–1695), Antonio Caldara (1670–1736) e Tommaso Traetta (1727-1779).

Tema quindi particolarmente diletto nei circuiti artistici, cui la tela del Guercino può essere -come la critica sostiene- identificata con quella ricordata dal Malvasia nella sua Felsina pittrice quale “Una Sofonisba per il Panino” compresa nei dipinti eseguiti nel 1630. I Panini costituiscono un’autorevole famiglia centese, già affidante lavori pittorici al Barbieri per la loro dimora (1615-1617). Da evidenziare che, questo dipinto, non compare -in virtù di quanto ad oggi a noi pervenuto- nel Libro dei conti dello stesso Guercino.

L’opera, riflette ancora i versi giovanili del pittore, in primo luogo per la luminosa coloritura dei panneggi, confliggente con la cupa teatralità della scura tenda, che sottende la coltre della morte. Vi è steso un “fondere atmosferico” del corpo dell’effigiata, in un euritmico, armonioso convergere tra il “profilo plastico” e il colore. La posa, di Sofonisba, appare assai studiata trasmettendo, con la nobile nudezza di quelle membra effigiate, un meditato senso di pregnante classicità. Il nudo generoso corpo, sprigionante un sentimento di acuta purezza, si mostra con una mano sul ventre e in parte cinto da una raffinata, pregevole stoffa rossa -sottintendendo il sangue, quindi il fluire della vita- e da un drappo turchino scuro -sottendendo il cielo, perciò la purezza-. Nudità quale purità, vale a dire condizione di innocenza, di candore, piena assenza di tendenze colpevoli e impure.

Vedendo ulteriormente la tenda, essa sembra pronta ad avvolgere quel corpo prossimo alla morte, quasi un simile accento -la coltre- “scultoriamente” magnificato, dal Bernini, nell’agonizzante trapasso della Beata Ludovica Albertoni (1671-1674; Roma, S. Francesco a Ripa Grande) e nel monumento funebre di Alessandro VII (iniziato nel 1676 e terminato nel 1678; Roma S. Pietro in Vaticano). Il pesante drappo della morte è scolpito, dal medesimo Bernini, in altra maniera ad esempio nella notevole Memoria di Ippolito Merenda (realizzata tra il 1636 e il 1638/1640), oggi posta nella chiesa romana di S. Giacomo Maggiore alla Lungara, scultura contemporanea a quella inerente alla Memoria di Alessandro Valtrini (1639), collocata su un pilastro (sul lato destro della controfacciata accanto alla bussola) nella basilica romana di S. Lorenzo in Damaso. Da citare ancora, circa l’alveo creativo berniniano, la Memoria di Maria Raggi (1647; pia religiosa), sita nella basilica romana di S. Maria sopra Minerva, anch’essa posta su un pilastro, dal voluminoso panneggio, che costituisce una grande innovazione artistica, da cui scaturiranno altresì le marmoree coltri scolpite per il monumento “Albertoni” e per quello di “Alessandro VII”.

La tenda, icastico elemento declaratorio, è la cortina evocante la morte quale ineluttabile sorte propria dell’umanità, come sembra inciso nella pittura Sofonisba morente, sebbene il colore scuro non sia così denso.

La regina è colta nell’immediato istante appena susseguente all’ ingerimento del veleno, mentre posa con indifferenza la vuota coppa -- a forma di valva, citazione indiretta della perla-, scostandone lo sguardo come un terminale atto di quieto ribrezzo, ovvero un consapevole composto gesto rivolto alla sua infausta ventura.   

Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Sofonisba nuda morente, 1630, Roma, Collezione Mainetti



Sofonisba vestita morente

Altro olio su tela –Roma, Collezione Mainetti- raffigurante il tema di Sofonisba morente, che potrebbe coincidere con quella citata sul Libro dei conti, del pittore, in data 3 ottobre 1654, dove viene registrato un pagamento ottenuto per due dipinti, fra cui una “Sofonisba”, somma di denaro versata da un committente veneziano, Giovan Donato Correggio. Membro della famiglia di facoltosi mercanti, originaria di Bergamo, trasferitesi definitivamente a Venezia nel corso del Cinquecento, in cui brillantemente danno corso all’ascesa sociale, sino a raggiungere il titolo nobiliare, fregiando il loro status con l'acquisto di un pregiato palazzo sul Canal Grande, che permette di adibirne uno spazio ai fini di una ragguardevole collezione d’arte -formata e incrementata in breve tempo- negli anni Sessanta del Seicento.

Ipotesi accettata da gran parte della critica, poiché, tra i vari motivi ivi formulati, questo tema dipinto è menzionato una sola volta fra le annotazioni dei “versamenti” ricevuti.  Da rilevare che le dimensioni, di questa tela, sono minori rispetto a quelle abitualmente impiegate, dal Guercino, riguardo alle mezze figure. Molto probabile che, tale aspetto, sia derivato da una decurtazione inerente sia al bordo inferiore e sia a quello destro, spiegando perciò la differenza pari a circa 15 cm, in ambo i lati, in relazione alle tele solitamente, per l’appunto, utilizzate dallo stesso pittore.  

Il dipinto mostra la Morte di Sofonisba, la regina cartaginese immortalata dal plurisecolare racconto abbastanza romanzato. Ella ha già bevuto la mortale pozione, che l’ucciderà tra qualche istante. Tiene ancora in mano il piccolo aperto recipiente -confermando la forma di valva, altra citazione indiretta della perla-, sembrando quasi che, nel riposarla, voglia allontanarla da sé. La figura muliebre indossa pregiate vesti seicentesche; il suo sguardo esprime una mestizia sfociante nel dolore, consegnandosi al tremendo finale esito dell’episodio.

Un intimo sentimento pervade la scena, tramite sfumate modulazioni di ordinati colori, secondo la rinnovata cifra del Guercino espressa, maggiormente, dal quarto decennio del Seicento in poi (attenuato cromatismo e stesura più lieve), interpretando, in personale chiave, i versi del Reni. Tenue gradazione dei colori, i quali imprimono alla scena una drammatica pervasiva interiore afflizione, toccando una misurata solennità. Soltanto la mano sinistra, tenuemente posata sul petto, annuncia la vicinissima fine mortale. Sofonisba quindi è mostrata come donna riflessiva e straordinaria, colma d’interiorità nell’affrontare l’arcigna, orribile sofferenza, a cui è sottoposta. Scevra di futile teatralità, la regina fronteggia la morte “senza gittarne lacrima, o sospiro; e senza pur cangiarsi di colore” come ha già scritto il letterato Gian Giorgio Trissino, nella su citata omonima tragedia, evidenziando la completa rettitudine di quella donna: “Ne la camera sua fece ritorno;/ove senza tardar prese il veneno, e tutto lo bevea sicuramente, in fin al fondo del lucente vaso. Ma quel, che più mi par meraviglioso, è, ch’ella fece tutte queste cose senza gittarne lacrima, o sospiro; e senza pur cangiarsi di colore. Dapoi si volse, e trasse d’una cassa un bel drappo di seta, et uno di lino; e disse, donne, quando sarò morta, piaccavi rivoltare questi panni il corpo mio, e darli sepoltura”.

Una sorta di memorabile equilibrio traspira nella scena di tale pittura, che il Guercino esplicita nella sua maturità altresì artistica, ricavate, con vivida personalità, a impostazioni, prettamente del Reni, come più volte osservato.   

La muliebre mezza figura, esprimente ancor più solitudine rispetto alla precedente Sofonisba, aduna in sé un intero plurimo insieme di percezioni, suscitando palpitanti sensazioni.

Il candido seno è appena pronunciato ma ben evidente nella sua nobile carnalità, che la veste non comprime ma ne esclama la floridezza in un vibrare di sofferenza. Sono riproposti tre colori già stesi nell’antecedente medesimo tema, sebbene in frenati toni: il colore rosso della veste, che stringe quelle floride mammelle, sottendendo il sangue, quindi il fluire della vita; il turchino scuro delineato particolarmente in un tratto del primo manto -che d’azzurro scuro diviene sempre più cupo sino a confondersi quasi con l’oscurità retrostante alla figura- sottintendendo il cielo, perciò la purezza “presa dalla morte”, sottolineata dal secondo manto; di questa veste lo scuro marrone è maggiormente fosco, se confrontato con quello della tenda prima Sofonisba (la scura tenda, la coltre della morte), ma anch’esso con minuti tratti più chiari. A tali colori, in questa composizione, si aggiungono: il giallo (con chiaroscuro gioco) delle maniche della veste e il bianco delle maniche. Il giallo colore associato al Sole -fonte di vita- e quindi alla luce celeste e perciò alla perfezione, simbolo, in questo caso, di elevatezza interiore; il bianco simbolo della purezza d’animo.

Un aggiuntivo soffermarsi sulla valva: nella simbologia cristiana allude -guscio chiuso- al sepolcro, racchiudente i defunti, destinati alla resurrezione dei giusti se redenti.

Questa visuale, strettamente collegata alla perla, è formidabilmente accennata dalle due rappresentazioni dell’infelice ma virtuosa (nel significato sopra espresso) della sovrana cartaginese.

Il soggetto circa Sofonisba appare esaltazione di un interpretabile stoicismo femminile, non scevro -altresì in queste due opere- di una sorta d’indagare su sentimenti di acuto erotismo. La sostanziale visibile castità del personaggio, che l’avvolge, sprigionando un lemma morale, ne esalta l’eros di densa valenza filosofica –quantunque esso manifesti la corporeità, nondimeno solleva i sensi nel moto verso l’assoluto-, magnificamente elaborata dal Guercino.



Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Sofonisba vestita morente, 1654, Roma, Collezione Mainetti


 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 





martedì 23 gennaio 2024

Basilica di S. Apollinare alle Terme Neroniane Alessandrine: il raro monogramma nella Cappella titolata alla Vergine

La volta della Cappella dedicata alla Vergine, detta anche Vergine delle Grazie, della Basilica di S. Apollinare, Cappellania della Pontifica Università della Santa Croce, comprende un raro monogramma mariano, da me rilevato -dopo lunghe ricerche- quale sinora unico in Roma, di cui manca dunque, per quanto minutamente esaminato, un’appropriata interpretazione.


Il Complesso "dell'Apollinare" racchiude gemme artistiche, quali, ad esempio, la statua di S. Francesco Saverio (cui il mio post è, attualmente, il sesto tra i più letti), oltre a delle quasi unicità come il monogramma mariano in argomento.

Il monogramma "dell'Apollinare" confrontato con quello comune 


Prima di illustrare specificatamente tale peculiare “insieme di segni”, occorre soffermarsi sulla “visione” del termine parola-lògos, aspetto essenziale in merito al tema che, in questa sede, viene esposto. Nel Vecchio Testamento, la parola di Dio, è il ripetuto traslato manifestante l’effetto repentino della Sua volontà, perciò non vi è espressa una definita quintessenza della “persona parola”. Tale “sottile sostanza” è affrontata, durante l’età ellenistica, come concetto intellegibile, unito a versanti intessuti dalla filosofia, l’aulica sapienza rivolta all’argomentazione e comprensione di tutte le essenze avvertibili o intrinseche alle idee, queste realtà eterne, atemporali ed eteree, delle quali il mondo sensibile è una -spesso sfuocata-immagine.  

Il lògos, cui l’etimo include soprattutto il significato “parola, ragione” come attesta Eraclito, ripresa successivamente da altri pensieri filosofici greci. Essi individuano in “lògos” la divina ragione che, permeando il mondo, vi diffonde la sua sostanza, lo vivifica e lo sospinge verso il suo compiuto disegno 

Nel successivo complesso sapienziale greco-ebraico, si definisce la sapienza divina “lògos”, che, in Filone di Alessandria, acquista una ben definita personalità come prima potenza -nello spazio e nel tempo- palesata da Dio, con potere mediatore tra il Creatore stesso e la realtà molteplice, espressa nel e dal mondo. Il lògos perciò appare il custode e il propagatore della composita idea, intesa quale aspetto, forma della plurima creazione, forza senziente che colma la voragine interminata disgiungente Dio e il mondo. Esso però rimane “immagine teorica” di Dio, percepita dunque come primo principio della realtà sensibile, energia fondamentale la quale sostiene tutti gli elementi, la “via filosofica” che consente, all’umanità, di elevarsi giungendo alla contemplazione interiore di Dio: argomenti di sapore quasi dottrinale circa il lògos figurato come luce e vita.

Nella visione propria del Vangelo, il lògos è, secondo quanto afferma Giovanni, l’incarnato Verbo di Dio (Verbum Dei), Cristo, la Parola tangibile di Dio, Sua perfetta immagine. Viene enunciata quindi la natura del lògos nell’eterna azione divina, concreta persona per mezzo della quale si esplica la redenzione umana.  Nel principio era la Parola (il Verbo di Dio) e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. In lei era la vita…” (Giovanni cap.1, vers.1-4). Ancora “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui (il Verbo di Dio) …” (vers. 9 e 10), “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi …” (vers. 14).

Quantomeno un accenno richiede l’elaborato approfondimento, avvenuto nel primo Cristianesimo, contemporaneamente alle questioni cristologiche e trinitarie, con la rilettura di definizioni formulate dal pensiero filosofico greco e lo sviluppo di una cristiana conoscenza. Infatti, questa è rivelata da ciò che deriva da Dio, non riducendone perciò le connotazioni a un riecheggiamento di concetti già elaborati ma risaltandone il nuovo divenire svelato, quindi non eternamente immobile. A tal fine si possono citare, tra gli altri, Giustino, Ireneo di Lione, Clemente Alessandrino e Agostino; in particolare quest’ultimo rileva l’acuta attinenza tra alcuni tratti della letteratura filosofica greca e, per l’appunto, la verità cristiana rivelata nella completezza, che evidenzia l’essenza reale del Verbum Dei.

Ulteriore aspetto necessariamente da considerare -se non altro in breve-, riguardo l’argomento trattato, attiene al simbolo. “Elemento” -o insieme di “elementi”-  evocante la sostanza di quello che in assoluto esiste, soprattutto circa le entità immateriali. L’arte, nel suo ampissimo percorso temporale -almeno sino alla metà del XVIII sec.-, è pregna di capaci simboli -non considerati meri “vezzi” estetici- come ad esempio esemplifica il granchio, effigiato ai piedi della poetica statua di S. Francesco Saverio -un episodio della sua vita s’intreccia con quel crostaceo-, realizzata da Pierre Legros, detto il Giovane (appellato anche Pierre II Legros) proprio per la “nostra” Basilica.

Quanto finora esposto, come detto all’inizio di questo articolo, è strettamente connesso al portato del monogramma in argomento.

L’ambiente in cui esso è posto scaturisce dalla creatività architettonica di Ferdinando Fuga, che realizza un sacello a pianta rettangolare (aprile del 1742-agosto 1747), ripresa in chiave personale dell’originario vestibolo borrominiano compreso nella trasteverina S. Maria dei Sette Dolori.

L’inconsueto monogramma “dell’Apollinare”, posto com’è in alto, a una vista distratta, sembra non comprendere alcuna particolarità. Un’attenta osservazione però ne manifesta, di quei segni grafici, la peculiare composizione, quasi unica. Proprio il Fuga, forse su suggerimento di un suo stretto collaboratore, deve aver introdotto, in tale ambiente, lo stesso rarissimo monogramma -strettamente connesso al significato cultuale proclamato dall’affresco della Vergine- sito nella sagrestia della chiesa aquilana di San Marco, in gran parte ricostruita dopo il terremoto del 1703. Vicino ad essa sorge l’ex chiesa di S. Agostino (attualmente spazio teatrale), ugualmente quasi distrutta dal medesimo sisma, cui, il Fuga, ne avrebbe disegnato un progetto. Successivamente, nella stessa città dell’Aquila, inizia il lavoro riguardante la chiesa di S. Caterina martire (1747-1752), ove la sua mano si evidenzia. Questi dati storici producono la razionale ipotesi che, l’architetto, debba aver visto il su citato monogramma, per poi riprodurlo nella “nostra” Cappella, considerando che egli, nel 1748, dà pure avvio all’elevazione del nuovo “Palazzo Apollinare” e quindi il monogramma potrebbe essere stato eseguito durante i lavori di tale edificio.

Alzando lo sguardo verso la volta, appare evidente la forma a trigramma, concretando un vivido fonema, l’eminente suono del principio nel quale era la Parola e la Parola era con Dio e la Parola era Dio. Eterna radice della creazione, in quanto il Padre Eterno ha creato il suono e l’universo è nato da esso. Il Verbo si è fatto carne per mezzo di Maria, che l’argomentato simbolo ne attesta l’unione inscindibile con Gesù Cristo, secondo il piano salvifico divino. Miryam in ebraico, Maryam in aramaico, la lingua parlata dal popolo, deriverebbe dall’egiziano Mryt “beneamata, che ha in sé intensa grazia”, oppure, come sembra da aggiornati studi, scaturirebbe da una voce semitica nord-occidentale “rum” “persona elevata”, perciò Miryam significherebbe “eccelsa, elevata”. Già il suo nome la proclama, da ogni visuale, sublime, destinata alla sommità dei cieli.

Il “nostro” monogramma si distingue da quello tradizionale, poiché accentuato da due “S” non coincidenti -però speculari- nell’avvolgere le barrette laterali della “M”, affermando, per l’appunto, l’unione della Vergine al disegno redentivo voluto da Dio, sostanziato attraverso il Cristo. Se tali consonanti enunciano l’aggettivo, riferito a Maria, Santissima Madre di Dio, invero distinguono un ulteriore e più sottile significato. La loro foggia serpentiforme, infatti, rimanda al Vangelo di Giovanni (capitolo 3, vers.14-15:” E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figliol dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna”. Il passo evangelico si riferisce al libro veterotestamentario Numeri (capitolo 21, vers.8-9), passi successivi alla descrizione della punizione divina avvenuta per mezzo di mortali serpenti:” E l’Eterno disse a Mosè: Fatti un serpente ardente e mettilo sopra un'asta; e avverrà che chiunque sarà morso e lo guarderà, scamperà (dalla morte). Mosè allora fece un serpente di rame e lo mise sopra un’asta; e avveniva che, quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, scampava”. Il serpente è in relazione con la terra (vive sia nei luoghi umidi sia nei deserti) e il mondo infero (grembo fertile della Terra; vive anche in ambienti ipogei), che, già creatura negativa, risalendo le superfici diviene diffusore di guarigione e di rinascita altresì spirituale. Raffigurazione quindi dell’opera redentrice sostanziata, nella storia umana, da Cristo Gesù. Invero, Egli avoca a sé l’inconoscibilità, l’imperscrutabilità del suo patire sulla croce, su cui morirà (per risorgere dal sepolcro e sancire la vita eterna a chiunque a Lui si volga), decifrando e dischiudendo il significato dell'antico atto -dal senso profetico- eseguito da Mosè. Il serpente posto sull’incrociato legno si trasforma in efficace simbolo di Cristo, il quale trasfigura il peccato, assumendone il gravoso peso tramite l’Incarnazione, rendendolo sterile -poiché estraneo al suo essere Vero Uomo, Figlio di Dio- quindi simbolo di rinnovamento e di risveglio spirituale, dunque di resurrezione, conseguenza di quell’offrirsi con quell’atroce supplizio mortale.

Oltre a ciò, quelle due “S” aprendo e chiudendo, nei versi espressi, il monogramma, sottintendono un’aggiuntiva acuta accezione, riferita al Cristo lògos-verbum: "Ego sum Α et Ω" (“Io sono l'alpha e l'oméga”; Apocalisse cap.1, vers.8), “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine” (Apocalisse cap. 21, vers.6). Gesù Cristo affermando la sua identità divina, quale Alfa e Omega, definisce sé stesso eterno e perciò uguale a Dio, dunque Egli è Dio. A tal proposito giova rammentare due passi contenuti nel libro di Isaia: “Io sono il primo e l’ultimo” (cap.44, vers. 6), “Io sono il primo e sono pure l’ultimo” (cap.48, vers.12-13): Dio, riferendosi a sé stesso, asserisce la sua interezza, la sua pienezza infinita quale “primo e “ultimo”.  

Al centro della “M” s’interseca la vocale “A”, che mantenendo, volutamente, la relativa barretta orizzontale, a differenza della comune impostazione, forma, con le due linee obblique verticali della stessa “M”, due triangoli equilateri, sovrapposti, dall’implicito valore simbolico trinitario. In effetti, sin dai primi secoli del Cristianesimo ne declama lo svelamento prodotto da Cristo: Padre, Figlio e Spirito Santo. Il vertice glorifica Dio Padre mentre i lati della base inneggiano a Dio Cristo e a Dio Spirito Santo: Dio Uno e Unico, dalla sola sostanza divina, nel quale esistono e agiscono tre uguali persone sebbene distinte. Molte volte le raffigurazioni artistiche mostrano un alone/aureola triangolare intorno e sopra la testa di Dio Padre, immagine della Trinità.

All’interno della “A” si nota, come accennato in precedenza, un altro triangolo, quest’ultimo rovesciato, dunque con l’apice rivolto in basso: l’azione divina sulla terra, l’incarnazione del lògos e l’opera dello Spirito Santo. Geometrico “impianto” che ribadisce l’Unico Dio, attraverso il quale si compie l’armonia del sistema dualistico “cosmico”: “Padre nostro che sei nei cielisia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”. Il capitolo sesto del Vangelo di Matteo (vers.10-13) riporta la fondamentale preghiera dettata da Cristo, cui altresì echeggiano i due triangoli del monogramma, reale inno teologico.

Cogliendo la valenza simbolica narrata da quell’insieme di segni, nell’animo sorge un intenso sentire in armonia con quanto il templum esplicita: non un’afona sacralità ma una sinfonia sacrale sospingente lo sguardo e il “petto”, sede della sensibilità, verso il cielo, per essere anime viventi in terra.     

Ringrazio il Rev. Dott. don  Manuel Miedes, Rettore della Basilica di Sant'Apollinare, per la gentile autorizzazione circa la pubblicazione delle immagini comprese in questo post

mercoledì 31 agosto 2022

Marco Benefial: la ponderata passionalità della Vergine Addolorata con angeli con strumenti della passione e il Volto Santo di Cristo, scena dipinta per la chiesa di S. Maria dei Sette Dolori

Celato da un alto muro su un pendio del colle Gianicolo, il complesso di S. Maria dei Sette Dolori repentinamente appare, nella sua elaborata e distinta architettonica forma, allorché si oltrepassi l’esterno portale (segue immagine).


Imponente edificazione voluta da Camilla Virginia Savelli, la quale nel 1641 acquista uno spazioso fabbricato rurale, situato accanto a un terreno esteso sulle pendici del Gianicolo, già donatole dalla cugina materna, la francescana Giacinta Marescotti, futura santa (ricordiamo l’altare dedicatole in S. Francesco a Ripa Grande). In tale luogo sorgono dunque la chiesa e il monastero delle oblate agostiniane, secondo il proposito della medesima Savelli. Emerge in lei la volontà di poter concretare la vocazione religiosa femminile, espletandola senza la rigidità della clausura più stretta. Pur inglobando dunque quel senso di spiritualità francescana, incentrata sull’intenso interiore sentire, la pia nobildonna desidera concretare un’esperienza religiosa diversa, adottando perciò la regola, meno “aspra”, delle Oblate Agostiniane. Il termine oblato -dal latino oblatus, da oblatus “offrire”- indica, in generale, coloro che, attraverso la vita monastica, agiscono con “dedizione in servitù” (oblatio) nella donazione completa di se stessi a Dio, consacrandosi a Cristo. Infatti, la fondatrice di questo monastero pone quale scopo, delle “sue Oblate”, una forte azione caritatevole, secondo quanto lei stessa si adopera tra poveri, diseredati, infermi, di Trastevere. Progetta altresì la costruzione di un ospedale attiguo, al costruendo complesso, però una serie di avversi eventi e la maggiore presenza di religiose di nobile origine, la indirizzano, prevalentemente, verso l’educandato, vale a dire l’opera di istruzione per le fanciulle soprattutto povere, accogliendo altresì anche quelle sofferenti per qualche infermità, non contagiosa, “rifiutate” da altri monasteri.  

La volontà, della duchessa Savelli, di enunciare la salda elevatezza della sua opera religiosa, che si propone di accogliere un gran numero di donne, sia votate all’attiva spiritualità, sia bisognose di concreto aiuto, individua, nel Borromini, l’architetto a cui assegnare la realizzazione, architettonica, del superbo complesso di S. Maria dei Sette Dolori (1642). I lavori iniziano nel 1643 proseguendo sino al 1646, con edificazione della parte centrale circa il prospetto (compreso il portale) e quella laterale sinistra. Probabilmente, per i concomitanti incarichi inerenti alle fabbriche dell’Oratorio dei Filippini, di S. Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) e di S. Ivo alla Sapienza, l’architetto ticinese non cura, adeguatamente, la direzione dell’opera costruttiva di questo complesso, sino ad abbandonarlo (1646 su citato), benché il progetto sia quasi definito -in disegno- in tutti i suoi particolari. L’edificazione, ad ogni modo, in breve tempo riprende -la chiesa è completata nel 1652- per essere finanziata, successivamente, dal duca Pietro Farnese, marito di donna Camilla, attraverso la vendita di una vasta proprietà terriera (1658). Sarà Francesco Contini a completare i lavori (1658-1667), con palese il richiamo al Borromini, sebbene mancanti dell’ornamentazione esterna, proprio -come si reputa- per carenza finanziaria.

Un ambiente celato mostra l’ingenita raffinatezza, degli spazi interni, dell’articolato edificio, formato dalla chiesa e dall’annesso convento -quest’ultimo oggi trasformato in un rinomato hotel-: la Sala Nobile, “condotta” dalle oblate agostiniane come la stessa chiesa (segue immagine). 


Locale allestito dalla duchessa Savelli, per ricevere, “degnamente”, nobili, prelati e così via; funzione che manterrà nei tempi successivi, come attesta la visita di Pio IX (1857, circa) svoltasi nel complesso, al termine della quale il pontefice a lungo sosta in tale particolare stanza. Essa distendendosi con volta rettangolare a botte e vele laterali, conserva sulle ordinate pareti alcuni dipinti, tra cui il ritratto della fondatrice, Camilla Virginia Savelli, di Carlo Maratta (o Maratti), il cui linguaggio pittorico adorna, della chiesa, la cappella di sinistra con il coevo S. Agostino e il mistero della Ss. Trinità (1655-1656). Quasi prospiciente al ritratto marattiano è posta la tela, Vergine Addolorata con angeli con strumenti della passione e il Volto Santo di Cristo, di Marco Benefial. Pittura originariamente collocata nella chiesa, come testimonia altresì la Nuova Guida Metodica di Roma e suoi contorni, aumentata e corretta dal Marchese Giuseppe Melchiorri, Roma 1840: “Quello (il dipinto, N.d.R.) poi di M.V. addolorata sopra la porta interna è del Cav. Marco Benefial”.

Questa opera plastica espone, però in cadenza raccolta, meditativa, quella immagine ove la Vergine è attraversata, trafitta -altresì in evocante chiave-, dal dolore quale compartecipe della passione di Gesù Cristo. Per interpretarne dunque la sostanza pittorica, occorre perciò volgersi al culto, a cui essa si volge ed esprime.

La devozione alla Vergine Addolorata scaturisce dalla lettura, di alcuni passi, inclusi nel Vangelo di Giovanni (capitolo 19, versi 25-27), in cui è citata la presenza della Vergine ai piedi della Croce. Culto molto diffuso dalla fine del secolo XI, per l’operato di S. Anselmo (dottore della Chiesa; 1033 o 1034–1109), di S. Bernardo (1090-1153) e soprattutto dello sconosciuto -a tutt’oggi- autore del Liber de passio Christi et dolor et planctu Matris eius (Libro della passione di Cristo e anche del dolore e del pianto di colei che ne è la Madre), erroneamente attribuito in passato allo stesso S. Bernardo. Con il Liber inizia una cospicua esposizione letteraria, in diversi paesi europei, incentrata sul Pianto della Vergine. Da ciò deriva il celeberrimo Stabat Mater (Madre che sta ai piedi della Croce), cui già l’inizio ne definisce la tragicità della composizione, attribuita, ormai definitivamente, a Jacopone da Todi (?-1306): Stabat Mater iuxta crucem lacrimòsa dum pendébat Filius. Cuius ànimam geméntem contristàtam et dolèntem pertransívit glàdius … (La Madre addolorata stava in lacrime presso la Croce mentre pendeva il Figlio. E il suo animo gemente, contristato e dolente era trafitto da una spada …). Densa devozione che si effonde tanto da originare la ricorrenza dei Sette Dolori di Maria Santissima ed infatti, nel XV sec., avvengono le prime cerimonie cultuali della Compassione di Maria ai piedi della Croce, celebrazione poi molto divulgata benché priva del distintivo segno d’universalità, sancita dalla Chiesa. Trascorreranno circa quattro secoli, affinché sia proclamata festa liturgica “universale”, quindi in tutta la stessa Chiesa (1814), da Pio VII, soprattutto quale ringraziamento per l’affrancamento suo e dello stato pontificio dal gioco napoleonico. Fissata inizialmente alla terza domenica settembrina, nel 1913 Pio X ne stabilisce la definitiva data al 15 settembre, consacrandola alla Beata Vergine Maria Addolorata.

Il formidabile eco dello Stabat, durante l’avvicendarsi dei secoli, ispira altresì numerosi musicisti che ne realizzano mirabili componimenti; citandone alcuni si avverte la vastità di tale drammatico tema: Giovanni Pierligi da Palestrina, Alessandro Scarlatti, Domenico Scarlatti, Antonio Caldara, Giovanni Battista Pergolesi , Tommaso Traetta, Agostino Steffani, Joseph Haydn, Luigi Boccherini, Giovanni Paisiello, Saverio Mercadante, Gioachino Rossini, Franz Schubert, Franz Listz, Giuseppe Verdi, Francis Poulenc e altri.

Al dolore della Vergine il portentoso edificio, eretto all’inizio del Gianicolo, si dedica, rammemorando i sette che, durante l’esistenza, l’avvinghiano. Quale proemio che li precede, come squarcio di cieli non più trascendenti ma riversati in una realtà tutta umana, si staglia la profezia dell'anziano Simeone sul Bambino Gesù:A te stessa una spada trafiggerà l’anima” (Vangelo di Luca, capitolo 2, verso 35). Questo è il vaticinio rivolto alla Vergine da Simeone, pronunciato a chiusura del cantico con il quale innalza la sua lode al Salvatore (nell’episodio che narra la presentazione del Bambino, da poco tempo nato, al Tempio di Gerusalemme), alla Sua azione futura di giustizia “causa di rovina” per gli empi, “di resurrezione” per la moltitudine, che a Lui si assegna ascoltandone e praticandone gli insegnamenti. Una lettura “tradizionale” consegnerebbe, a Maria, soltanto il suo strazio a venire, che la percuoterà ai bordi della croce, laddove invece, quell’arma appuntita profetizzata, avrà forza di svelare la purezza o la corruzione “di molti cuori” e a causa di tale agire sorgerà il martirio sul Calvario, da cui s’innalzerà la resurrezione di Cristo prima e, dei giusti in Cristo, alla fine dei tempi:Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima. (Vangelo di Luca capitolo su citato, versi 34-35). La Vergine quindi -secondo un’interpretazione scevra di una limitante visione-, nel suo dolore acuto per il martirio del Divino Figlio, col trafiggente sofferenza aprirà, per prima, l’anima alla resurrezione del Messia. La Vergine, che condividerà con il Cristo alcuni “aguzzi tratti” percorrenti la Sua vita umana. Da essi la “doglianza” patita nella fuga in Egitto, durante la strage dei bambini ordinata dal re Erode (Vangelo di Matteo capitolo 2, versi 13-22). L’angoscia per la sparizione di Gesù Cristo, dodicenne, ritrovato, dopo tre giorni, nel tempio di Gerusalemme (Vangelo di Luca 2:41-51). Inoltre, l'incontro tra Maria e Gesù Cristo lungo la salita al Calvario, episodio non indicato nel vangelo di Luca, che fa riferimento a “una gran folla di popolo e di donne”, le quali seguono Cristo battendosi il petto con gran lamento, ma la tradizione ne vuole, come razionalmente ipotizzabile, anche la presenza della Vergine. Ella segue il Figlio sino ai piedi della croce su cui viene crocifisso Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa” (Vangelo di Giovanni capitolo 19, versi 25-27). Ancora un’acutissima afflizione, la Vergine accoglie nelle sue braccia Cristo morto, prima che sia sepolto; scena definita Pietà, descrivente un episodio non contenuto nei Vangeli –ma anch’esso oggettivamente plausibile-, vale a dire quel doloroso raccoglimento della Vergine, sul corpo del Figlio morto. Vicenda composta dal sentimento appartenente alla forte devozione e alla salda spiritualità, soprattutto vivida in Italia e in Germania (per tale argomento rimando al mio post del 23 giugno 2018 “La Pietà, affresco di Perin del Vaga in S. Stefano del Cacco: considerazioni”). Infine, Maria assiste al seppellimento di Cristo Gesù; anche questo episodio non è menzionato da nessun Vangelo -ma ragionevolmente verosimile-, desumendosi solo dal testo di Giovanni, in virtù della presenza della Vergine accanto alla croce, sulla quale è inchiodato il Messia.

L’immagine quindi di Maria, attraversata da un vorace patimento, ha dato vita alla voluminosissima mole devozionale e artistica, espressa attraverso rappresentazioni poetiche, musicali, plastiche, versante in cui, come già in precedenza accennato, altresì il Benfial (1684-1764) si cimenta su commissione, però secondo un particolare sentimento.

La sua nascita in Roma -da genitori francesi -, essendo incline alla pittura sin da bambino, lo consegna alla bottega di Bonaventura Lamberti, pittore molto attivo in ambito romano, dall’impronta linearmente “classica”, che interpreta la formidabile lezione soprattutto di Annibale Carracci. Perciò il quattordicenne Benefial dirige il suo imberbe percorso verso lo studio di Raffaello e della scuola bolognese, cui i Carracci sono tra gli apici. Successivamente al 1703 iniziano i primi timidi passi della sua autonoma realizzazione pittorica, seppur in modo graduale e difficoltoso; infatti, solo nel 1716 emerge, nella “Città Eterna”, il suo estro in “divenire” eseguendo il S. Saturnino per la basilica dei Ss. Giovanni e Paolo al Celio. In tale periodo si rivela densa la sintassi marattiana nei suoi lavori, come dimostra anche la tela in S. Maria dei Sette Dolori.

Lavoro eseguito nel 1721 che, seppur pregno del respiro, come detto, soffuso da un verso del Maratta, già però annuncia il suo vivido rappresentare, con peculiare compattezza, l’insieme degli elementi cromatici, stesi in colori scevri di esagerate “iridescenze” che emettono soltanto vacui effetti; al contrario il Benefial combina una pittura delicata, schietta e misurata. Si avvia così la sua cifra stilistica a contraddistinguersi in quegli anni, a Roma, attenta al particolare, senza mai perciò a cedere a divagazioni meramente decorative, a futili orpelli.

In tale dipinto il Volto Santo si mostra decisamente scuro, pressoché nascosto, in una sorta di rossastra macula, mentre la Vergine, nel suo composto e raccolto dolore, è attorniata da angeli, che come un coro tengono, teneramente, tra le mani gli strumenti della Passione; misurato insieme da cui scaturisce però un’originale potente intensità drammatica, un acceso commosso sentimento affettivo, che non tracima in un’artefatta compassione estetica.

L’evidente tendenza classicheggiante -nell’artista viva molto- inizia a non imprigionarsi nel freddo e “corretto” formale disegno accademico. Quel rossastro funebre panno, retto dalle delicate -non languide- figure angeliche, sembra unirsi al manto della Vergine. La ricercata dolcezza, lo studiato amabile aspetto non straripa in una morbidezza descrittiva, al contrario la trama delle suggestioni, sapientemente articolate, ne appalesano la sostanza di pittura governata con padronanza, tra   armoniosi scelti accordi cromatici, rifuggenti da intenti meramente celebrativi.

Tutta la composizione appalesa il ponderato tenore emotivo, nobilmente contegnoso, attraverso una vibrante grazia, la quale poeta la sobrietà, di quell’alato coro, che cinge in levità la Vergine, raffigurata con posa di profonda meditazione, svellente ogni artificiosa tragicità, mostrando, all’osservatore, quanto sia consapevole compartecipe a quel sacrificio messianico, che sul Golgota si è compiuto (segue immagine tratta da Google).