In
merito a Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666), il mio blog
comprende due post. Con il primo (13 febbraio 2015) ho illustrato le quattro
tele esposte nella mostra di Palazzo Barberini “Da Guercino a Caravaggio” (Et
in Arcadia Ego, Incredulità di S. Tommaso, Ritratto del Cardinale
Bernardino Spada, Sibilla Persica), mentre ho incentrato il secondo
sulla raffigurazione della Maddalena penitente (28 settembre 2020) -ad
oggi il nono scritto più letto-, con passaggi circa la sua biografia, cui ne
rimando la lettura.
Il
corrente anno 2024 rappresenta una “dovuta” celebrazione del Barbieri, come
attestano le due mostre svoltesi, rispettivamente, alla Pinacoteca Nazionale di
Bologna (Guercino nello studio) e ai Musei Reali Torino – Sale di
Palazzo Chiablese- (Guercino. Il mestiere del pittore). Inoltre, il 31
ottobre inizierà quella programmata alle Scuderie del Quirinale, in Roma (Guercino.
L'era Ludovisi a Roma).
Nei
dipinti del Guercino -riprendendo un passo del mio post su la Maddalena
penitente- la donna, nelle diverse espressioni rappresentate, vi riflette
una concretezza che diviene musica, contenuto costruito su un concetto morale,
accento pacatamente mistico, aspetto esoterico; perciò la raffigurazione muliebre
sostanzia il tramite per una vasta visuale escludente la quotidianità, un modo
appropriato per rappresentare il divino, l’idealità lucente. Tale visione
distingue, nel divenire della vita - transizione da uno stato all’altro-, ciò
che sorge insolito come ardente esposizione cromatica, che eleva l’esistenza,
tale da donare reale respiro a quel sentimento di pieno affetto, svelato dalla donna.
Insieme di virtù (quale eletta forza) palesi e alte, così espresse dalla
bellezza fisica, sino a mostrarsi sovrana concreta condizione, della realtà
altra, nella sua assolutezza muliebre, percezione piena nella conoscenza, luce
colma di giovinezza mai offesa dal tempo.
Nel
Seicento la figura femminile continua ad essere avvertita entro determinati
ambiti, tra i quali si stagliano quella spirituale e quella detta
“magica-stregonesca”. L’acuto bene e il demoniaco male vi si contrappongono,
apparendo incoerenti -soprattutto nel secondo aspetto- con il concreto divenire
“dell’essere”. In tale contesto negativo, il Guercino, elabora alcune disegnate
raffigurazioni fantastiche (alcune prossime al macabro), spesso grottesche,
talvolta, per l’appunto, con personaggi femminili. Disegni però separati, non
riscontrabili in ciò che egli effigia nei dipinti.
Temi
relativi al mistero, alla “dimensione inspiegabile” catturano altresì -ma in
elevato tono- gli ambienti artistici, letterari e dunque pur un eccelso
disegnatore, come il Barberi, tratteggia, su elaborati fogli, simili figurate
sue riflessioni. Momenti diversivi quindi appaiono quei disegni dal carattere
“sinistro”, considerando il denso esplicito sentire religioso, canonico, dell’artista.
Invero,
il Guercino appare personaggio morigeratissimo, quasi un uomo avvolto da uno
sentimento di profonda religiosità sacerdotale, come afferma Carlo Cesare Malvasia nella Felsina Pittrice.
Vite de pittori bolognesi (1678, tomo secondo):”inimico della bugia
… umile, compassionevole, religioso, casto. Frequentatore de’ Sacramenti,
amatore de’ poveri … Dicea ben di tutti … Fu stimato vergine, e
parea tale dall’aspetto florido, ed alla polizia della sua vita … visse
… con gran timore di Dio, onde morì ancora come un Santo”. Di fatto non si coniuga con alcuna donna
e nemmeno si possiedono notizie circa sue storie amorose, cionondimeno le donne
rappresentate nelle sue opere, spesso rivolte a un’intima platea, appalesano un’intensa
visione nutrita per la raffigurazione muliebre.
In
merito alla religiosità propria del Barbieri, non si devono escludere -come
dimostrano diversi suoi lavori pittorici- alcuni “influssi” con complesse
visioni filosofiche, proprie altresì di eminenti personaggi religiosi, pur
nell’attenta combinazione con i postulati della Chiesa. Infatti, il Guercino
frequenta l’erudito e l’estroso religioso Antonio Mirandola, autore di scritti
peculiari dal manifesto humus paradigmatico, figurato, di etica
interiorità (Gabella della Morte, 1635; Hostaria del mal tempo,
1639) con frontespizi -dal tono inquietante il primo- disegnati dal Barbieri e
incisi da Francesco Curti.
Di
questo particolare magma sapienziale, connotante il Rinascimento e il “Barocco”,
che approda almeno sino ai primi due decenni del Settecento, il Guercino ne
espone ampi elementi, sgorgati da quel particolare clima, pregno di versi
alchemici-esoterici-filosofici. La sua efficace mano possiede sostanza
penetrante ed espressiva, come, ad esempio, magnificamente pronuncia l’affresco
a tempera dell’Aurora (1621), che dona il nome all’ambiente, ove
troneggia, nel Casino Boncompagni Ludovisi in Roma (altri dipinti
“guercineschi” vi sono compresi, complesso “tragitto” di vivido “sapere altro”). Ulteriore paradigma di questo velato
linguaggio, insito spesso nella pittura del Barbieri, leggibile -nelle
intenzioni dell’epoca- soltanto da “iniziati”, poiché la sapienza richiede un
percorso irto e difficoltoso, è compiuto dalla Diana Cacciatrice (1658;
Roma, Collezione della Fondazione Sorgente Group).
Compitezza
spirituale, graduale viaggio purificatore attraverso cui si abbandona il
quotidiano materiale sentiero, per innalzarsi verso l’ètera,
la somma vetta incontaminata e fulgente dello spazio celeste, incorruttibile
apice di cui è formata l’essenza delle relative sfere, cui il consapevole
rivolgersi dell’uomo ne svela la sua propria primigenia natura e dunque ne
riacquista il respiro infinito e immortale.
La
cifra stilistica del Guercino è illustrata, dal su citato Carlo Cesare Malvasia,
nella medesima Felsina Pittrice:”… ma ben si possa affermare, tale
per l’appunto averne veduto l’effetto, quando il suo tingere di forza parve
d’ogni altra più fondata maniera … Ebbe egli un fare a quello di Guido
(Reni) contrario ed opposto, che dove questi della vaghezza troppo forte fu
vago, della fierezza mostronsi egli seguace; e
ripigliando del Caravaggio … il colorire forte, e la naturalezza,
l’abbellì con molta correzione, v’aggiunse più grazia … si dilettò egli
di rinforzarli (i colori, riferiti ad altri “Maestri”), perché
esorbitassero, così moderandone però con giudizio l’ardire, che ne rese anche
gradito l’eccesso. Ciò che fu in altri accidentale talvolta necessità, diventò
nelle sue mani naturale elezione, rappresentandoci sempre le immagini come di
notte percorsi dal lume, ò di giorno illuminate dal Sole”.
Già nelle sue prime opere, il Guercino,
si distingue attraverso una pittura concretata con piene pennellate insieme a
un’energica resa chiaroscurale, esclamante vividi effetti plastici, di elevata espressività
delle immagini, tramite eterei paesaggi, “ambienti atmosferici”, i quali imprimono
lirica autenticità e raffinatezza alle figure, che comunicano un distintivo
sentimento. Egli esprime le scene dipinte con piglio espressivo, vigoroso, altresì
con rappresentazioni concretate delicatamente e accarezzate da luci morbide,
diafane, unendole a capaci contrasti chiaroscurali, questi maggiormente stesi
nel suo periodo giovanile, mentre la tavolozza si palesa più quieta e con gamme
dai toni più chiari, in modo progressivo, dalla maturità in poi, aggiungendovi
una spiccata monumentalità dei personaggi.
La sua cifra stilistica viene sospinta
soprattutto da pittori emiliani (egli è natio di Cento, nel ferrarese) dal
deciso temperamento artistico e in particolare da Ludovico Carracci (cugino dei
fratelli Agostino e Annibale Carracci). Lo stesso Carracci, dunque eminente
pittore bolognese, individua -tra i primi riconoscimenti- la mirabile
padronanza plastica del giovane Guercino, come attestano sue lettere del 1617,
in cui egli lo menziona più volte: "si porta eroicamente ... dipinge
con somma felicità d'invenzione. E gran disegnatore e felicissimo coloritore; e
mostro di natura e miracolo da far stupire chi vede le sue opere".
Altra fondamentale esperienza, per il
giovane pittore, si rivela il soggiorno a Venezia (1618), dove assorbe, nei suoi studi, le opere dei
magistrali artisti del secolo precedente, venendo particolarmente impressionato
dalla pittura di Tiziano Vecellio.
Tra
le genesi dei suoi periodi creativi, si nota la lezione di Guido Reni,
progressivamente sempre più evidente, tramite che gli permette di tradurre, con
elevata personalità, stesure dalla corposità “barocca” ma entro una distribuzione
degli elementi pittorici rigorosi, sebbene ricercati, esponendo un
pregevolissimo uso del colore, derivandone pregnanti strutture compositive, ove
eufonicamente si armonizzano temi e motivi, realizzando perciò una sorta di
"classicismo barocco".
In
merito al Caravaggio, l’ascendente artistico sul primo stile del Barbieri vi appare
di poco peso. Difatti, le
tonalità cupe e l’incisivo grave contrapporsi di luci e di ombre, modello distintivo
nei dipinti del Guercino, antecedente al suo primo certo soggiorno romano
(1622), appare sviluppato indipendentemente dall’arte del Merisi, potendosi
invece considerare un accostamento a certe caratteristiche incluse nelle opere
di Ludovico Carracci (colmi contrasti di luce e di movimenti).
Il Barbieri è considerato dunque uno dei
pittori maggiormente paradigmatici, nell’alveo del ciclo apicale del “Barocco”,
per la sua perizia tecnica e per la singolarità della sua pennellata. Le sue realizzazioni
appaiono completamente scevre da pesantezze e da opacità, caratterizzate, per
l’appunto, dal forte contrapporsi di luci e di ombre oltre che da leggere
sfumature, pregne però di lucente aria. Insieme di attributi ma tali da non definire
capacità creative, sommamente esplicitate dal Caravaggio, al contrario vogliono
trasmettere un fresco rigoglio e un’estesa tersità, contrassegnanti componenti
fra tocchi dal brillante e deciso colorito, dialogo, si ribadisce, tra effetti
di luci e di ombre.
Ritornando sul sentimento, del
Guercino, verso l’universo muliebre, egli effigia giovani donne -spesso molto
giovani nella sua prima fase artistica- per poi dipingerle altresì prossime
alla maturità, però mai discoste dalla nobile bellezza, dalla cangiante leggiadria,
le quali emanano, in virtù del tema rappresentato, una suprema varietà di
affetti e toccanti inni spirituali. Avventi, sensuali donne abbigliate di
purezza, dalle lunghe brune mosse chiome, che coinvolgono l’osservatore con la
loro tangibile candida sensualità, qualcuna probabilmente “ripresa dal vero”
(certa, attualmente, solo quella che ha dato le fattezze alla Susanna e i
vecchioni -1617-, oggi conservata presso il madrileno Museo
del Prado), pur se non esiste alcuna fonte documentaria.
La figura muliebre diventa perciò
il chiaro tramite per una realtà suprema, una raffigurazione vivida esprimente il
divino, l’essenza della lucente natura insita in nascoste verità, dunque l’ètera
di cui precedentemente si è detto. A questo riguardo appare opportuno menzionare
brevemente che, l’aggettivo latino “divinus” deriva dal sostantivo “divus”,
e questo da “deus” (dio), esprimendo il concetto di luce
(straordinaria), dalla radice indoeuropea “div” (splendere).
Visione
sapienziale che concreta un tramite di grazia, vale a dire elevatezza
attraverso l’espressa leggiadria. Il ritratto femminile del Guercino esprime la
visione di grazia sublime e dunque altra.
Quanto finora enunciato
preannuncia, quali esempi, le tre pitture oggetto di questo post: Venere
e Amore, due versioni della Sofonisba morente.
Venere e Amore
(le tre immagini contenute,
in questo scritto, sono tratte da “Google immagini” prive di indicazione
circa il relativo copyright)
Nella Felsina Pittrice
il Malvasia afferma che, nel 1632, il Guercino “dipinse una Venere a fresco”
nella villa “La Giovannina”, una delle proprietà appartenenti al conte Filippo
Maria Aldrovandi. Nobiliare residenza, poco distante da Cento, che, il suddetto
nobile, vuole decorare in onore del suo matrimonio con la marchesa Isabella
Pepoli (1617). Si reputa, il dipinto, quale relativo dono
di nozze dello stesso Barbieri, poiché lavoro non indicato sul suo Libro dei
conti. Ipotesi questa avvalorata dal rapporto amicale intercorrente tra il
Guercino stesso e l’Aldovrandi. Ultima opera murale ad oggi conosciuta, eseguita
“a fresco”. Venere e Amore in origine è sita sopra il camino nella
stanza ornata con Storie di Clorinda (personaggio della Gerusalemme
liberata del Tasso, la valorosa guerriera saracena, dall’elevato animo).
Strappata dalla parete intorno al 1786 e riportata su tela, condotta e posta nella
dimora bolognese della nobile famiglia, il dipinto è successivamente donato a
Gregorio XVI (1831-1846). A sua volta il pontefice
affida l’opera alla Pinacoteca Capitolina, la quale poi raggiunge la collezione
dell’Accademia di San Luca (1836), dove tutt’oggi è conservata.
Questo dipinto -restaurato
nel biennio 2014-2015- si pone al termine del periodo ritenuto di transizione
del Guercino (1623-1632), in cui gradualmente inizia a mutare la sua cifra
stilistica, assumendo versi impregnati di classicità.
In un sereno paesaggio, la
dea, soavemente seduta a terra e graziosamente poggiata su pregevoli cuscini,
volge il suo materno sguardo ad Amore, il quale, in volo, dopo aver trafitto il
cuore infiammato, inciso sul tronco d’albero, sta per scoccare un secondo dardo
dalla sua ornata faretra. Immagine di fitta simbologia -che declina ogni banale
significato, per erigersi verso l’altrove-, dacché il cuore, in chiave
simbolica, è l’organo germogliante la conoscenza, sede perciò dell’intelletto,
dei sentimenti e dell’attiva volontà. Nei testi biblici esso raffigura l’uomo
interiore come esemplifica il primo libro di Samuele, cap. 16, vers. 7: “l'uomo
guarda all'apparenza, ma l’Eterno guarda al cuore”.
Ancora, si legge
nell’epistola agli Efesini, cap. 3, vers. 17-19: “Che il Cristo abiti per la
fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado
di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza
e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza,
perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”. Simbolo, certamente
legato all’amore terreno, ma quel cuore esemplifica l’altra sua concettualizzazione
simbolica, che alberga nel divino e nel mistico, divenendo altare nel quale
sono distrutti, dal fuoco dello Spirito Santo, i vili desideri carnali.
Sulla figura di Venere
sorge, quale esemplificazione, un passo -dedicato ad Afrodite- degli inni del
filosofo neoplatonico Proclo (V sec.):” Cantiamo le emanazioni dai molti nomi di Colei che
è nata dalla schiuma e la grande Fonte regale, da cui tutti gli alati Erotes
immortali sono sorti, di cui alcuni colpiscono le anime con frecce noeriche (la noesi, conoscenza per intuizione
del vero nella sua assoluta e immota forma e unità dei suoi molteplici elementi) in modo che, essendo stati prese dai
pungoli del desiderio che conducono in alto, aspirino a rivedere le
fiammeggianti sale della Madre … Ma,
Dea, poiché Tu sei Colei che ha un orecchio che sente da lontano in ogni luogo,
sia che Tu avvolga il grande Cielo tutt'intorno, dove, come essi dicono, Tu sei
l'Anima (l’Afrodite quale anima universale) divina del Cosmo immortale, o
che dimori nell'Etere sopra i cerchi delle sette orbite mentre versi Poteri
invincibili nelle Tue emanazioni, ascolta, e possa Tu guidare il faticoso
percorso della mia vita, Signora, con le Tue frecce più giuste, ponendo fine al
freddo impulso dei desideri non sacri”. Inoltre, ripercorrendo il Platonismo,
s’innalza Urania, l’Afrodite celeste, che rappresenta la forza dell’amore, la
quale investe e lega tutte le parti dell’universo, perciò dea dell’amore caelestis,
puro e ideale. Pagina pittorica quindi di elevatissima intuitiva sapienza
filosofica e spirituale.
Pittura incardinata su forme
vigorose dall’acceso e profondo colore intenso, che però, come in precedenza accennato,
già comprende attenuate sfumature, le quali nutrono un evidente equilibrato
assetto, approdando a un annuncio di sobrietà compositiva specifica della
visione classicistica. Infine, si rivela la seminuda Venere-Afrodite, nobilitata
e liliale con le sue floride membra, dal dolce sguardo genitoriale rivolto ad Amore-Eros,
accompagnandolo, nel suo atto, con soave sentimento. Si scorge, sul lobo
dell’orecchio visibile, un orecchino formato da una perla (tra gli “attributi”
di Afrodite, sorta dalla schiuma marina). Monile, “tratto” dalla conchiglia, già
simbolo della celata conoscenza e del sapere esoterico, viene incluso nel Fisiologo. Opera
di un ignoto alessandrino del II sec., ipotetico naturalista Physiologus.
Per mezzo di esempi desunti dal regno animale, illustra e diffonde, in sostanza
simbolica, l’ampia dottrina del Cristianesimo. In realtà, lo sconosciuto autore,
appare aver profonda conoscenza dei testi sacri ma non di scienza naturale,
considerando le fantasiose sue osservazioni, anche se molto significanti in
seno all’universo simbolico. Il “trattato”, durante il Medioevo, è oggetto di varie
aggiunte. In tale scritto è riportato che:” Si trova nel mare una conchiglia
… Essa emerge dal fondo del mare … apre la sua bocca e beve la
rugiada del cielo e il raggio del Sole, della Luna e delle stelle, e per mezzo
di quelle luci superiori porta a compimento la perla … Le due valve
della conchiglia sono l’Antico e il Nuovo Testamento, mentre la perla
rappresenta (l’esito dell’azione messianica) il nostro Salvatore Gesù
Cristo”. Simbolo quindi di sacralità rivelata, di redenzione. Concezione
pulsante nell’Inno della Perla o Inno dell’Anima, componimento
concretato ad Edessa -oggi Şanlıurfa nel territorio turco-, intorno al III
secolo circa. Scritto originariamente in lingua siriaca, si diffonde in
Occidente attraverso una traduzione in greco. Si ipotizza che l’autore sia gnostico
siro Bardesane, vissuto tra il II e III sec., che fonde le
due tradizioni -orientale e occidentale- in un sincretismo, tramite della sua concezione
del Cristianesimo, a cui si converte mantenendo però la sua peculiare visione, considerante
la realtà terrena come una commistione tra tenebre e luce, fra corpo e anima, che
solo un processo di purificazione ne permette il riscatto spirituale. Inno
dove è narrato un particolare viaggio alla ricerca della Perla
(l’illuminazione), custodita da un drago. Il suo possesso -ricordando l’abisso marino,
da cui essa proviene- indica il tragitto di ascesa attuato dall'anima pervasa
dalla gnosi - la conoscenza rivelata delle realtà divine-, percorso che
raggiunge il vertice riacquistando i primigeni elementi divini, fagocitate dal tenebrore,
la diffusa oscurità. Difatti, il protagonista della vicenda, estrae la perla da
una cavità, coperta dalla sorgente custodita dal tremendo drago. In tale
narrazione si ribadisce che, questo gioiello, ritrae la massima virtù (dall’etimo
latino dichiarante
"forza, coraggio"). Dote da recuperare -figurazione
simbolica- affinché si rigeneri l’anima, precipitata in un globo terrestre, giudicato
maligno e tenuto stretto da tenebre legate all’ignavia, che soverchia, sino ad
annientare -qualora non avvenga il risveglio interiore- la luce connaturata
all’uomo, quale essere creato da Dio, strappando così lo spessissimo manto
intessuto da demoni. Nei secoli successivi saranno confermati, alla perla, altri
simili proprietà simboliche, come quella che l’associa alle lacrime, immagine
figurata di virtù -nel significato sopra espresso-, tempranti gli spiriti
vitali partoriti dal cuore. Infine, ogni secolare argomentazione gli ascrive,
per la sua forma sferica, la proprietà della perfezione e dell’eternità, a
motivo del cerchio, privo d’inizio e privo di fine.
La figura femminile, ritratta dal Guercino, assume dunque in sé tutte
queste distintive essenze, bandendo letture superficiali di mera ornamentazione
pittorica; all’opposto, per mezzo del suo poetico estro, esprime “valori” di
sottile e incisiva rilevanza, coerenti con la sua visione, affermata da questo
affresco, celebrante la reale identità di Afrodite-Venere, interpretabile quale
codice dedicatorio, del nobile Aldrovandi, alla sua sposa,
Isabella Pepoli, vista come donna sublime.
Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Venere e Amore, 1623, pittura murale riportata su tela, Roma, Accademia S. Luca |
Sofonisba nuda morente
Il
dipinto -olio su tela; Roma, Collezione Mainetti- effigia la drammatica fine
della regina cartaginese, Sofonisba, che secondo la tradizione romanzata,
raccolta da Tito Livio -autore della celebre storia di Roma, iniziata tra il
27 e il 25 a. C. e scritta sino alla morte dello storico latino, 17 d.C.- beve
coraggiosamente il veleno contenuto nella coppa, offertale per non cadere nel
bottino di guerra romano. Opera definitivamente ascritta al Guercino nel 1999.
Figura
quindi famosa in epoca romana, come testimoniano due pitture pompeiane, la sua
tragica vicenda -già cantata dal Petrarca- gode di grande fortuna nella
letteratura del Rinascimento e pur successivamente. Invero, soggetto del
componimento letterario Sofonisba di Gian Giorgio Trissino (pubblicato
nel 1524), primo esempio della tragedia classica italiana. Episodio narrato
altresì in opere letterarie francesi e inglesi. Nel 1789 appare la Sofonisba
di Vittorio Alfieri. Questo personaggio viene ripreso da diverse opere musicali,
composte nei secoli XVII e XVIII. Fra queste si rammentano quelle dell’inglese Henry Purcell (1659–1695),
Antonio Caldara (1670–1736) e Tommaso Traetta (1727-1779).
Tema quindi
particolarmente diletto nei circuiti artistici, cui la tela del Guercino può
essere -come la critica sostiene- identificata con quella ricordata dal
Malvasia nella sua Felsina pittrice quale “Una Sofonisba per il
Panino” compresa nei dipinti eseguiti nel 1630. I Panini costituiscono
un’autorevole famiglia centese, già affidante lavori pittorici al Barbieri per
la loro dimora (1615-1617). Da evidenziare che, questo dipinto, non compare -in
virtù di quanto ad oggi a noi pervenuto- nel Libro dei conti dello stesso
Guercino.
L’opera,
riflette ancora i versi giovanili del pittore, in primo luogo per la luminosa coloritura
dei panneggi, confliggente con la cupa teatralità della scura tenda, che
sottende la coltre della morte. Vi è steso un “fondere
atmosferico” del corpo dell’effigiata, in un euritmico, armonioso convergere tra
il “profilo plastico” e il colore. La posa, di Sofonisba, appare assai
studiata trasmettendo, con la nobile nudezza di quelle membra effigiate, un
meditato senso di pregnante classicità. Il nudo generoso corpo, sprigionante un
sentimento di acuta purezza, si mostra con una mano sul ventre e in parte cinto
da una raffinata, pregevole stoffa rossa -sottintendendo il sangue, quindi il
fluire della vita- e da un drappo turchino scuro -sottendendo il cielo, perciò
la purezza-. Nudità quale purità, vale a dire condizione di innocenza, di
candore, piena assenza di tendenze colpevoli e impure.
Vedendo
ulteriormente la tenda, essa sembra pronta ad avvolgere quel corpo prossimo
alla morte, quasi un simile accento -la coltre- “scultoriamente” magnificato,
dal Bernini, nell’agonizzante trapasso della Beata Ludovica Albertoni (1671-1674; Roma, S. Francesco a
Ripa Grande) e nel monumento funebre di Alessandro VII (iniziato nel
1676 e terminato nel 1678; Roma S. Pietro in Vaticano). Il pesante drappo della
morte è scolpito, dal medesimo Bernini, in altra maniera ad esempio nella
notevole Memoria di Ippolito Merenda (realizzata tra il 1636 e il
1638/1640), oggi posta nella chiesa romana di S. Giacomo Maggiore alla Lungara,
scultura contemporanea a quella inerente alla Memoria di
Alessandro Valtrini (1639), collocata su un pilastro (sul lato destro della
controfacciata accanto alla bussola) nella basilica romana di S. Lorenzo in Damaso. Da citare
ancora, circa l’alveo creativo berniniano, la Memoria di Maria Raggi
(1647; pia religiosa), sita nella basilica romana di S. Maria sopra Minerva,
anch’essa posta su un pilastro, dal voluminoso panneggio, che costituisce una
grande innovazione artistica, da cui scaturiranno altresì le marmoree coltri
scolpite per il monumento “Albertoni” e per quello di “Alessandro VII”.
La
tenda, icastico elemento declaratorio, è la cortina evocante la morte quale
ineluttabile sorte propria dell’umanità, come sembra inciso nella pittura Sofonisba
morente, sebbene il colore scuro non sia così denso.
La regina è colta nell’immediato istante appena susseguente all’ ingerimento del veleno, mentre posa con indifferenza la vuota coppa -- a forma di valva, citazione indiretta della perla-, scostandone lo sguardo come un terminale atto di quieto ribrezzo, ovvero un consapevole composto gesto rivolto alla sua infausta ventura.
Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Sofonisba nuda morente, 1630, Roma, Collezione Mainetti |
Sofonisba vestita morente
Altro
olio su tela –Roma, Collezione Mainetti- raffigurante il tema di Sofonisba
morente, che potrebbe coincidere con quella citata sul Libro dei conti, del
pittore, in data 3 ottobre 1654, dove viene registrato un pagamento ottenuto per
due dipinti, fra cui una “Sofonisba”, somma di denaro versata da un
committente veneziano, Giovan Donato Correggio. Membro della famiglia di
facoltosi mercanti, originaria di Bergamo, trasferitesi definitivamente a
Venezia nel corso del Cinquecento, in cui brillantemente danno corso all’ascesa
sociale, sino a raggiungere il titolo nobiliare, fregiando il loro status con
l'acquisto di un pregiato palazzo sul Canal Grande, che permette di adibirne
uno spazio ai fini di una ragguardevole collezione d’arte -formata e
incrementata in breve tempo- negli anni Sessanta del Seicento.
Ipotesi
accettata da gran parte della critica, poiché, tra i vari motivi ivi formulati,
questo tema dipinto è menzionato una sola volta fra le annotazioni dei
“versamenti” ricevuti. Da rilevare che
le dimensioni, di questa tela, sono minori rispetto a quelle abitualmente impiegate,
dal Guercino, riguardo alle mezze figure. Molto probabile che, tale aspetto,
sia derivato da una decurtazione inerente sia al bordo inferiore e sia a quello
destro, spiegando perciò la differenza pari a circa 15 cm, in ambo i lati,
in
relazione alle tele solitamente, per l’appunto, utilizzate dallo stesso pittore.
Il
dipinto mostra la Morte di Sofonisba, la regina cartaginese immortalata
dal plurisecolare racconto abbastanza romanzato. Ella ha già bevuto la mortale
pozione, che l’ucciderà tra qualche istante. Tiene ancora in mano il piccolo
aperto recipiente -confermando la forma di valva, altra citazione indiretta
della perla-, sembrando quasi che, nel riposarla, voglia allontanarla da sé. La
figura muliebre indossa pregiate vesti seicentesche; il suo sguardo esprime una
mestizia sfociante nel dolore, consegnandosi al tremendo finale esito dell’episodio.
Un
intimo sentimento pervade la scena, tramite sfumate modulazioni di ordinati colori,
secondo la rinnovata cifra del Guercino espressa, maggiormente, dal quarto
decennio del Seicento in poi (attenuato cromatismo e stesura più lieve),
interpretando, in personale chiave, i versi del Reni. Tenue gradazione dei
colori, i quali imprimono alla scena una drammatica pervasiva interiore afflizione,
toccando una misurata solennità. Soltanto la mano sinistra, tenuemente posata sul
petto, annuncia la vicinissima fine mortale. Sofonisba quindi è mostrata
come donna riflessiva e straordinaria, colma d’interiorità nell’affrontare
l’arcigna, orribile sofferenza, a cui è sottoposta. Scevra
di futile teatralità, la regina fronteggia la morte “senza
gittarne lacrima, o sospiro; e senza pur cangiarsi di colore” come ha già
scritto il letterato Gian Giorgio Trissino, nella su citata omonima tragedia, evidenziando
la completa rettitudine di quella donna: “Ne la camera sua fece ritorno;/ove
senza tardar prese il veneno, e tutto lo bevea sicuramente, in fin al fondo del
lucente vaso. Ma quel, che più mi par meraviglioso, è, ch’ella fece tutte queste
cose senza gittarne lacrima, o sospiro; e senza pur cangiarsi di colore. Dapoi
si volse, e trasse d’una cassa un bel drappo di seta, et uno di lino; e disse,
donne, quando sarò morta, piaccavi rivoltare questi panni il corpo mio, e darli
sepoltura”.
Una
sorta di memorabile equilibrio traspira nella scena di tale pittura, che il
Guercino esplicita nella sua maturità altresì artistica, ricavate, con vivida
personalità, a impostazioni, prettamente del Reni, come
più volte osservato.
La
muliebre mezza figura, esprimente ancor più solitudine rispetto alla precedente
Sofonisba, aduna in sé un intero plurimo insieme di percezioni,
suscitando palpitanti sensazioni.
Il
candido seno è appena pronunciato ma ben evidente nella sua nobile carnalità,
che la veste non comprime ma ne esclama la floridezza in un vibrare di
sofferenza. Sono riproposti tre colori già stesi nell’antecedente medesimo tema,
sebbene in frenati toni: il colore rosso della veste, che stringe quelle floride
mammelle, sottendendo il sangue, quindi il fluire della vita; il
turchino scuro delineato particolarmente in un tratto del primo manto -che
d’azzurro scuro diviene sempre più cupo sino a confondersi quasi con l’oscurità
retrostante alla figura- sottintendendo il cielo, perciò la purezza “presa
dalla morte”, sottolineata dal secondo manto; di questa veste lo scuro marrone è
maggiormente fosco, se confrontato con quello della tenda prima Sofonisba (la
scura tenda, la coltre della morte), ma anch’esso con minuti tratti più chiari.
A tali colori, in questa composizione, si aggiungono: il giallo (con chiaroscuro
gioco) delle maniche della veste e il bianco delle maniche. Il giallo colore
associato al Sole -fonte di vita- e quindi alla luce celeste e perciò alla perfezione,
simbolo, in questo caso, di elevatezza interiore; il bianco simbolo della
purezza d’animo.
Un
aggiuntivo soffermarsi sulla valva: nella simbologia cristiana allude -guscio
chiuso- al sepolcro, racchiudente i defunti, destinati alla resurrezione dei
giusti se redenti.
Questa
visuale, strettamente collegata alla perla, è formidabilmente accennata dalle
due rappresentazioni dell’infelice ma virtuosa (nel significato sopra espresso)
della sovrana cartaginese.
Il soggetto
circa Sofonisba appare esaltazione di un interpretabile stoicismo
femminile, non scevro -altresì in queste due opere- di una sorta d’indagare su
sentimenti di acuto erotismo. La sostanziale visibile castità del personaggio,
che l’avvolge, sprigionando un lemma morale, ne esalta l’eros di densa valenza
filosofica –quantunque esso manifesti la corporeità, nondimeno solleva i sensi
nel moto verso l’assoluto-, magnificamente elaborata dal Guercino.
Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Sofonisba vestita morente, 1654, Roma, Collezione Mainetti |