L’antico
Monastero delle Tre Fontane (il Complesso delle Tre Fontane “ad
Aquas Salvias” è oggetto di un mio studio) sorge nella zona in cui è avvenuto, secondo la
tradizione, il martirio di S. Paolo; in origine (VII secolo) è retto da monaci
provenienti dalla Cilicia, attuale regione dell’Anatolia, compresa in gran
parte nell’odierna Turchia, con propaggini in Armenia. Dal 1081, circa, è
officiato dai Benedettini di S. Paolo fuori le Mura, divenendo una delle
proprietà di quell'Abbazia ostiense, sino al 1139, circa, quando l‘area
conventuale è affidata ai Cistercensi. In questo periodo si restaura ampiamente
l’edificio sino a ricostruirne estese sezioni, permettendo la consacrazione
della Chiesa abbaziale, SS. Vincenzo e Anastasio, soltanto nel 1221, mentre il Monastero
è completato nel 1306, con la fine dei lavori riguardanti il Chiostro e la Sala
capitolare. In tal epoca ha inizio la sua fase di maggior fulgore, come
testimoniano gli affreschi in esso eseguiti.
Già alla fine del XIV secolo inizia un lungo
arco temporale di decadenza, di depauperamento, sino alla seconda metà del XVI
secolo, allorché si pongono in atto importanti lavori edilizi, terminati nei
primi anni del XVII secolo, con i quali si compie la ricostruzione della Chiesa
di S. Maria in Ara Coeli e della Chiesa di S. Paolo, il restauro della Chiesa
abbaziale e degli edifici monastici. Il prestigio del Monastero così recuperato,
pur con parentesi non propriamente felici, appare rilevante sino alla nascita
della Repubblica Romana e l’occupazione della “Città Eterna” attuate dalle
truppe napoleoniche (1798-1799). Da questo momento inizia un rapido declino del
Complesso monastico, culminato nel 1809 -a seguito della seconda discesa in
Italia di Napoleone (1808)-, durante il quale è spogliato di tutti i suoi
averi, compresi i pregiati arredi e i preziosi codici; inoltre, a causa della
soppressione degli ordini religiosi, i monaci sono costretti ad abbandonare questi
luoghi, che restano in desolato stato finché nel 1826, Leone XII (1823-1829),
ne affida i locali, parzialmente restaurati, ai Francescani, Frati Minori
Conventuali. In realtà le “vacillanti” condizioni degli edifici e l’insalubrità
della zona, consentono soltanto una riapertura parziale del Complesso, tanto
che la sera viene chiuso e lasciato dai religiosi. Questa triste condizione si
protrae fino al 1868, anno in cui Pio IX (1846-1878), con la Bolla del 21
aprile, dona l’Abazia alla laboriosa comunità dei monaci Cistercensi della
Stretta Osservanza, costituita da un primo nucleo di quattordici Trappisti. Si
avvia, di conseguenza, il recupero dei fabbricati e la bonifica integrale del
territorio, terminata, con successo, nel 1904.
Ritornando indietro nello svolgersi dei
secoli, affacciamo il nostro sguardo sul colmo rigoglio che impregna, tutto
quest'ambiente, tra la seconda metà del XIII e la prima metà del XIV secolo,
favorito, soprattutto, da un insieme di concessioni pontificie le quali
attribuiscono al Monastero dei consistenti privilegi.
In questa precisa scena appartengono gli
affreschi, che ornano alcune parti dell’Abbazia, del Convento e della Sacrestia.
Tali pitture murali, come oggi sono osservabili, sembrano appartenere, in gran
parte, a un medesimo artista e di una sua probabile bottega, ovvero a un
ristretto numero di pittori di simile cifra stilistica, i cui temi danno spazio
a una suddivisione concettuale:
- due figure, decisamente stinte, di Santi sui pilastri laterali del portico della Chiesa abbaziale (frammenti di un ricchissimo impianto decorativo); a destra, guardando la facciata della Chiesa medesima, è identificabile, per la scritta superstite “SANCTUS IACOBUS”, uno dei due Apostoli di Gesù dal nome Giacomo –ma non quale-; a sinistra s'individua S. Leonardo di Limoges (eremita del VI secolo), riconoscibile dalle catene, segno della sua particolare protezione, attribuitagli nell’epoca medioevale, verso i carcerati incolpevoli, i cavalieri e i “combattenti” caduti prigionieri;
- due lunette situate nella Sacrestia ove si nota il soggetto “Nascita di Gesù” e quello della “Incoronazione della Vergine”;
- le volte a crociera, della Sala capitolare, decorate con stelle bianche –luce spirituale prevalente sulla tenebra, secondo alcuni pensieri medievali- su un fondo ocra -lo stesso motivo orna quelle del corridoio che conduce ai campi-, sotto cui, all’epoca, sono dipinti acanti fioriti (per i suoi aculei indica il perfetto svolgimento di un arduo compito), palme (la vittoria spirituale), pavoni (“icone” della contemplazione e della vigilanza spirituale);
- due pannelli, nell’Aula chiostrale, effigianti S. Onofrio nudo, ricoperto dai soli capelli (dalla tradizione ascritto alla santità quale anacoreta del V secolo); S. Margherita (o Marina) di Antiochia (martire del III secolo, secondo la devozione) e un fedele;
- nove pannelli, in origine esterni all’edificio conventuale, ritornati alla luce nel 1965, appartenenti al ciclo detto della “Vita Umana”, riquadri imperniati sul tema delle attività umane ma segnatamente sul percorso terreno dell’anima. Attualmente sono conservati, in modo non adeguato a un vero godimento di questi beni della cultura, nella cosiddetta Sala museale (visitabile); infatti, ad oggi, questo spazio ospita altresì il negozio monastico, ove si svolge la vendita diretta dei prodotti trappisti. E´auspicabile che, a breve, siano individuati dei vani adatti ad accogliere le sole diverse testimonianze archeologiche e artistiche, comprese nel “patrimonio culturale” abbaziale.
L’ambiente della Sala museale, dunque, si
apre al piano terreno dell’antica Foresteria, affacciata sul giardino; ancora
oggi, al piano superiore, i monaci vi ospitano coloro che vogliono sostare, in
questo sito, per ritemprare lo spirito. I riquadri -incorniciati da disegni di
archi ogivali convessi- incentrati sul tema dell’esistenza umana, non sono
collocati in base alla loro originaria disposizione, che li descriveva parti di
un fregio continuo, alto quasi tre metri e lungo circa tredici metri. Oggi si
susseguono: il “Lavoro dei Progenitori”,
l‘immagine “Unicorno”, la “Prova degli aquilotti”, il “Pescatore”, i “Sensi dell’Uomo”, le “Sette
età dell’uomo”, la “Raccolta della
frutta”, il “Putto vicino alla gabbia”
e le “Due gabbie”.
La raffigurazione che esprime i “Sensi dell’Uomo” trae la sua fonte dall’articolato
pensiero di Tommaso di Cantimpré (1201-1271, circa), domenicano
allievo di Alberto Magno. Egli scrive diverse vite di santi, rappresentando una
figura di rilievo nell’ambito della biografia mistica; è anche autore del trattato, “Bonum universale de apibus”, ove tratteggia un’ideale esistenza
cristiana interpretata attraverso la vita delle api. Studioso erudito è,
perciò, anche attento naturalista come conferma il suo corposo trattato “De natura rerum”, considerato uno dei
testi enciclopedici notevoli del Medioevo, cui diversi altri dotti personaggi
fanno riferimento, nell’elaborare scritti del medesimo argomento. Molti brani
dell’opera frequentemente diventano temi iconografici, come in questo caso.
In
una sorta di rosone –il cerchio centro onnipresente divino simboleggiante la
perfezione e l’intangibilità, piana racchiusa priva d’inizio e di fine- contenente
in sé sette cerchi, di cui sei nei quali sono sistemati altrettanti animali,
intorno a quello, centrale, dove campeggia un giovane uomo. Per interpretare il
significato “semantico” delle figure zoomorfe, dobbiamo introdurci nei concetti
del “Fisiologo”, opera letteraria del
II secolo, a noi giunta attraverso diverse redazioni di vari libri di scienze
naturali, sulla base di uno scritto originario di Alessandria, nel quale
s’interpreta la natura di animali, sia reali sia fantastici, cui sono
attribuite qualità straordinarie e fantasiose, al fine di illustrare
insegnamenti biblici-cristiani; una vasta eco esso suscita nel Medioevo,
influenzandone fortemente la simbologia, come evidenziano i “Bestiari”. Questi formano una
letteratura sapienziale, che interpreta la natura in senso simbolico, giacché
essa cela profonde verità, impresse da Dio nella Sua creazione; la sostanza
interpretativa sgorga da principi definiti dalla cultura classica, variandone
il significato e spesso ampliandone la capacità ai fini di una lettura,
“esegesi” cristiana. Il loro influsso, consapevole, sulla produzione artistica
genera densi repertori di soggetti, che codificano la pittura e la scultura.
Nel
verso dell’accento simbolico, la cognizione intellettuale di questo periodo, consegna
al sottile discernimento la visibilità della dimensione “altra”, che permea
tutta la società, sino a interessare l’incolto. L’arte –non solo nel corso del
Medioevo- scopre nell’intima profondità umana l’inestinguibile necessità di evocare
l’immagine e più oltre il simbolo; compie tale atto evidenziando, lungo il
corso della storia, tenaci permanenze concettuali nonché affinità non
ipotizzabili, le quali si propongono quindi nel tempo e nello spazio. L’uomo
esiste quale suprema creatura ed estrinseca, asserisce, sia pure con differenti
aspetti, il vincolo divino che comprende in sé l’atto del suo Creatore.
Dal
già citato “De natura rerum”, l’affresco dei “Sensi dell’Uomo”, ne rielabora in chiave pittorica alcuni principi:
” il cinghiale gli è superiore
nell’udito, la lince nella vista, la scimmia nel gusto, l’avvoltoio
nell’odorato, il ragno nel tatto”. Il leone –emblema aggiunto- ne rimarca
il solido valore, più recondito, della rappresentazione, che formula
un’iconografia cristiana. Infatti, il cinghiale –animale forte e “coraggioso”-,
talvolta, rappresenta Cristo, forse per la sua etimologia latina, aper, reputata erroneamente collegabile al nome del supposto capostipite
degli Ebrei (Eber); la lince, in
questo caso, assume il senso della lungimiranza; la scimmia, nell’immaginario
cristiano, è la caricatura dell’uomo decaduto; l’avvoltoio, già considerato dal
naturalismo romano animale divinatorio, le cui uova sono fecondate dal vento di
levante, diviene il simbolo della Vergine. Il “Fisiologo”, a tal proposito, afferma che la femmina, quando è
fecondata vola verso l’Oriente per sedere sulla pietra del parto, la quale
libera da ogni sofferenza e quindi.” anche
tu uomo che sei gravido dello Spirito Santo, prendi la pietra del parto
spirituale … e sedendoti su di essa … partorirai lo spirito della salvezza …
questa pietra del parto dello Spirito Santo è il Signore Gesù Cristo …
cresciuto da una vergine senza il seme dell’uomo”. Il ragno rammenta ogni
vana speranza, a causa della sua tela facilmente danneggiabile, come
esemplifica il testo biblico (Giobbe, capitolo 8, versetti 13-15): “ Tale la sorte di tutti quegli empi che
dimenticano Dio, la speranza dell’empio perirà. La sua baldanza è troncata, la
sua fiducia è come una tela di ragno. Egli si appoggia alla sua casa ma essa
non regge; vi si aggrappa ma quella non sta salda”. All’interno di un sistema di simboli perciò è
rimarcato il dualismo, la coesistenza di due principi distinti, opposti: “luce”
e “oscurità”.
Il
leone sintetizza completamente questi vivi cardini della realtà umana; invero,
nel “Fisiologo tale felino possiede
cariche tinte simboliche. Esso, a causa della sua andatura, cancella con la
coda le sue tracce: ” così anche Cristo …
inviato dal Padre invisibile, ha cancellato le Sue tracce spirituali, cioè la
Sua divinità”; dorme a occhi aperti: ” così
dorme sulla Croce il mio Signore ma la Sua divinità veglia alla destra di Dio,
del Padre” e altre similitudini immaginate. Diversi autori lo associano
alla resurrezione del Messia, credendo che quest'animale nasca morto e sia
resuscitato, dal soffio del padre, dopo tre giorni. Il riferimento al suo
carattere negativo –le forze minacciose e tenebrose- è figurato dal divorare
altri animali o uomini, intrappolati nei loro stessi peccati.
Questo
affresco contiene un’ulteriore “sembianza”, appartenente alla numerologia: il
numero sette, che in tale pittura murale deriva dalla somma tra quattro e tre.
Nell’uomo,
secondo una caratterizzazione metafisica, agiscono tre elementi: il soffio
vitale, lo spirito intellettuale e l’anima, quest’ultima essenza divina
misteriosa. Quando la ragione si unisce all’anima, attraverso la sapienza
illuminante dell’essenza divina, colta attraverso l’esperienza spirituale,
ambedue formano un elemento che riluce riflettendo il bagliore di Dio; in tal
modo l’uomo è trasformato in tempio, terrestre, dello Spirito e i sensi così
dominati vengono rischiarati; questa identità è raffigurata, nel “nostro”
riquadro, dal giovane umano, allegoria del pieno governo sensuale.
Il numero quattro
plasma l’emblema del moto e dell’infinito, comprendendo sia il principio
corporeo -il sensibile-, sia quello incorporeo, perché esso esplicita il
costante e naturale rapporto tra l’Uno trascendente e la quaterna –teoria di
quattro fattori- della sua manifestazione, rilevata azione nel mondo creato, in
cui l’uomo vive portando in sé il principio divino tra gli elementi essenziali - fuoco, aria, acqua, terra- fondamenta dell’ordine del “tutto” creato. È
giudicato, quindi, il numero della realtà, della concretezza, delle leggi
fisiche, della logica, della ragione, dell’orientamento, concretizzato dai
quattro punti cardinali (sud–nord, est-ovest), vale a dire i cardini, i
“sostegni” di ogni direzione, oltre a cadenzare il ritmo basilare del ciclo
della natura: il succedersi delle stagioni. Il quattro
si pone come palesamento di ciò che è concreto, immutabile e permanente nella
realtà umana caratterizzata dalla materia, dal percorso terreno esteso dalla
nascita alla morte corporale, dalla crescita dal livello spirituale più basso a
quello più elevato, ovvero l’ascensione dell’anima al cielo.
SANCTUS IACOBUS, pilastro laterale destro del portico |
S. Lorenzo di Limoges, pilastro laterale di sinistra del portico |
Riquadro "Sensi dell'Uomo". Immagine tratta da "Google Immagini"