Jans Frans van Douven: ritratto di Arcangelo Corelli (particolare). Immagine tratta da "Google Immagini"
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Dalle
plurime figure che di Roma ne esprimono, con evidenza, l’iridescente carattere
storico e artistico, avanza, tra persistenti agili note, Arcangelo Corelli
(1653-1713). Ho menzionato questo eccelso compositore e violinista nel mio post,
“Handel nello splendido vivore artistico
di Roma”, pubblicato lo scorso 6 febbraio, descrivendo il peculiare clima
scaturito dal grande mecenatismo romano, che accoglie la feconda magnificenza
di questo periodo, ove il magistero musicale si accorda con quelli di altre
espressioni creative, in una smagliante levatura estetica e culturale.
Nato
a Fusignano, località del ravennate, territorio in cui si estendono le numerose
proprietà, agricole, della sua famiglia, contraddistinta da un temperamento
impetuoso, irrequieto e colmo d’orgoglio, segni distintivi che nell’artista
permangono, il più delle volte, celati da un ritegno quasi malinconico, il
quale lo effigia personaggio, celebre, dal carattere dolce, disposto alla
pazienza e alla benevolenza.
Stabilitosi
a Roma nel 1675, già talentuoso musicista, trova seguito nell’ambiente
aristocratico, come ad esempio palesa la sua lettera, del 1679, inviata al nobile
Fabrizio Laderchi, dimorante a Firenze, quale risposta a una richiesta di
comporre un lavoro musicale per violino e liuto: ” … le mie sinfonie sono fatte solamente per far campeggiare il violino e
quelle d’altri professori non mi paiono cosa a proposito. Sto adesso componendo
certe sonate che si faranno nella prima Accademia di Sua Maestà (Cristina) di Svezia della quale sono entrato in servizio
per musico da camera, e finite che le avrò, ne comporrò una per Vossignoria …
dove il leuto pareggerà il violino”. Si nota che, l’artista, in questa
autocritica concernente una sua lacuna tecnica, mette però in risalto
l’inesistenza, di altri maestri, maggiormente capaci rispetto alle sue
manifestate doti. Le sonate –dodici- cui fa riferimento Corelli sono completate
ed eseguite nel 1680 con l’intitolazione “Opera
prima: Sonate à tre, doi Violini, e Violone, o Arcileuto, col Basso per
l’Organo Consecrate alla Sacra Real Maestà di Cristina Alessandra Regina di
Svezia”.
La
brillante cerchia artistica romana, incoraggiata da questa regale, particolare,
signora e da altri maggiorenti intellettuali – soprattutto i cardinali
Benedetto Pamphilij e Pietro Ottoboni-, assiste a un fondamentale momento di
accrescimento della musica strumentale europea, scaturito dall’estro del
maestro “Bolognese” –così
frequentemente nominato- che definisce la forma sonata nell’ultima parte del
XVII secolo e nei primi vagiti del XVIII secolo. In essa Corelli vi sprigiona la
completa cantabilità del violino attraverso una struttura, apparentemente,
semplice; la tessitura –espressività elevata- è svolta con altezze
raffinatissime, sorretta da un contrappunto in cui le melodie vigorosamente si
combinano ed eleganti fioriture appaiono in differenti lunghezze; nei movimenti
lenti, ricchi di flessuose ornamentazioni, svetta una fluida linea melodica,
soggetta a eleganti figurazioni ornamentali; molti passaggi introducono una
maggiore contrapposizione tra le parti, trasformando il dialogo in serrato
confronto sfociante in un’equilibrata contesa.
Georg
Muffat, uno dei maggiori organisti tedeschi che precede l’arte di Bach, durante
il suo soggiorno “di studi” romano (1681-1682) ascoltando “con sommo diletto ed ammiratione” alcune sonate, eseguite nel modo
dei concerti grossi (che egli introdurrà in Germania), afferma che “alcune bellissime suonate del Sign.r
Archangelo Corelli, l’Orfeo dell’Italia per il violino” sono “prodotte con grandissima puntualità, da
copiosissimo numero di suonatori”.
Allorché
nel 1700 è pubblicata l’Opera quinta,
la scrittura del “Bolognese”
sorprende per la maniera con cui affronta la sonata per violino solo e basso
(continuo; sistema di codifica di accordi il cui compimento è poi consegnato
alla capacità degli esecutori), sequenza di tempi eterogenei sviluppati in
forma di suite. Vi risaltano, tra
quanto vi è contenuto, le audaci variazioni -con “basso ostinato” lancinante e quasi
ossessivo pur mantenendo una palpitante vivacità- sul tema de “La Follia”, motivo di una danza
portoghese, fluita successivamente in Spagna, in auge nell’Europa del XVI e
XVII secolo. Questa interpretazione rappresenta uno dei culmini dell’arte musicale
di Corelli.
Negli
anni successivi egli esegue, nei suoi concerti, alcune sezioni -quale
incessante perfezionamento della forma– di
quella che sarà denominata “Opera sesta”,
la cui attesa si manifesta, in più occasioni, intensa, come dimostra nel 1711
Andrea Adami musicista, già cantore e maestro della Cappella pontificia, che
nel definire l’artista ravennate “gloria
maggior di questo secolo” e le cinque opere realizzate “la meraviglia del mondo tutto”, esclama: ” presentemente sta perfezionando l’Opera
Sesta de i Concerti, che in breve darà alla luce e con essa si renderà sempre
più immortale il suo nome”.
L’opera
viene pubblicata postuma, nel 1714, come “Opera
sesta: Concerti grossi con duoi violini e violoncello di concertino obligati e
duoi altri violini, viola e basso di concerto grosso ad arbitrio” ed è
subito accolta con entusiasmo, come la precedente, a Roma e poi in tutta
Europa, massima espressione di tale forma musicale dell’epoca, con la
caratteristica antitesi tra il concertino (tre strumenti solisti) e il “tutto
orchestrale”.
Riguardo
alla mitezza caratteriale, di Corelli, alcuni episodi ne svelano la figura
troppo compressa dalle eccessive esagerazioni dei biografi, come rileva, ad
esempio, la sua impetuosa risposta (17 ottobre 1685) a una “maliziosa” lettera
(26 settembre 1685) del bolognese Matteo Zani, il quale giudica la Sonata terza dell’Opera seconda comprendere dei riprovevoli errori, tali da
rappresentare un' irrazionale scrittura anche a musicisti virtuosi: ” … il
foglio del passo della suonata terza, dove cotesti Virtuosi hanno difficoltà, e
non me ne meraviglio punto, mentre da ciò comprendo benissimo il loro sapere,
che si stende poco più oltre de primi principii della compositione e
modulazione armonica, poiché se fossero passati più avanti nell’arte, e
sapessero la finezza, e profondità di essa, e che cosa sia armonia et in che
modo possa dilettare, e sollevare la mente humana non haurebbero tali scrupoli,
che nascono ordinariamente dall’ignoranza”.
Nella
“discussione a distanza” che ne segue interviene altresì Antimo Liberati,
cantore pontificio, stimato organista e maestro di cappella in molte chiese
romane; egli con vigorosa lode così fissa il suo pensiero riguardo all’estro di
Corelli: “Havrà molto da sudare chi
presumerà d’eguagliarlo, non che di avanzarlo … i suoi scritti in materia di
sinfonie, potranno servire d’insegnamento e d’autorità à tutti li studiosi e
chiunque cercherà d’imitarlo, e prendere autorità da suoi esempi, sarà certo di
non errare … Questo gran virtuoso è figlio della Scuola di Roma … stile al
maggior segno dilettevole, ed impareggiabile e pieno di tutte le vaghezze, e
bellezze che possa cadere nella mente humana”.
Indiscutibilmente
all’età di trentadue anni, il “Bolognese”,
è considerato l’apice musicale della scuola romana, che ne esalta la grandezza
insita nella sua arte compositiva, graditissima, tra le molte influenti
“personalità”, al suo ultimo mecenate, il cardinale Pietro Ottoboni –autentica
autorità culturale-, col quale stringe una sincera amicizia, che dimostra la
sua elevata “posizione sociale”, svincolata perciò da quella “accessorietà” nei
confronti della nobile committenza. Infatti, un altro evento ne testimonia il
peculiare carattere, talvolta pronto a mostrarsi orgoglioso e reattivo a
seguito di un’offesa subita. Durante un concerto egli smette, improvvisamente,
di suonare poiché il cardinale è preso da una conversazione e alla domanda di
questi circa l’interruzione, il maestro fieramente risponde: ”… temevo soltanto di disturbare i suoi affari”; il porporato
deve scusarsi pregando l’artista di ricominciare l’esecuzione musicale.
Onusto
di onori, Corelli, non può non essere un arcadico, invero, il 26 aprile 1706,
diviene uno degli “associati” dell’Accademia dell’Arcadia, assumendo il nome di
Arcomelo; una festa ivi svolta è narrata da Giovan Mario Crescimbeni, uno dei
fondatori dell’Accademia stessa (1690) di cui è il custode generale: ” Avendo Terprando (Alessandro Scarlatti) coi suoi compagni, ordinato quanto era
d’uopo … incominciò Arcomelo la musica … con una di quelle bellissime sinfonie
fatte nella nobil capanna dell’acclamato Crateo (il cardinale Ottoboni). Meraviglioso
… fu l’esatto accordo degli strumenti a fiato con quelli da arco … ma cio
ch’egli (Corelli) fece col suo
strumento eccedé la meraviglia stessa” (da L’Arcadia, 1708). Nelle “Notizie
istoriche degli Arcadi morti” (1720-1721) il Crescimbeni dona, sebbene con
enfasi celebrativa, alle età future un ritratto (postumo) del musicista: ” … apprendendo il suono del violino, vi prese
… tal genio che badò solo a questo; e trattenessi nella … città di Bologna
quattro anni, ove fece sì alto ingresso che in memoria volle assumere la sua
denominazione dalla stessa Città, essendosi fatto chiamare finché visse il
Bolognese. Si trasferì finalmente in Roma, ove nel corso del tempo arrivò a
tanta eccellenza nel maneggio di quello strumento, che a dir il vero niuno agguagliollo
… Egli fu il primo che introdusse in Roma le sinfonie di tal copioso numero e
varietà di strumenti, che si rende quasi impossibile a credere come si
potessero regolare senza timor di sconcerto, massimamente nell’accordo di quei
da fiato con quei da arco … Alla mirabil pratica accoppiò egli una pienissima
teorica nella stessa arte; per la quale compose a suoi giorni infinite
bellissime sinfonie, nelle quali l’allegro non mai offese il grave; e tutte
egualmente uscivano dilettevoli e maestose … Come famoso dunque fu ben sempre
riguardato in Roma … e dalla Corte, e specialmente dall’amplissimo Cardinale
Pietro Ottoboni …”.
Francesco
Gasparini, allievo di Corelli, è altra “fonte storica”, che guida lo sguardo
sulle caratteristiche delle opere corelliane: ” … con tanto artifizio, studio e vaghezza, muove e modula quei suoi bassi con simili legature e
dissonanze tanto ben regolate e risolute, e sì ben intrecciate con la varietà de’soggetti, che si può ben
dir che abbia ritrovata la perfezione di harmonia che rapisce”.
Il
“Bolognese” partecipa attivamente a
quel “sistema delle arti” all’epoca frequentatissimo; la sua esplicita
erudizione, accompagnata da un’evidente “finezza di gusto”, favorisce il suo
interesse verso altri accenti artistici, anche manifestate da diverse culture.
Difatti, egli vanta una consistente collezione di dipinti e di disegni (tra
centotrentasei e centoquarantadue), comparendo quale una delle sue “ragioni di
vita”, testimonianza di diletto del musicista che, nell’arte figurativa,
ritrova un aspetto estetico simile al suo, benché trapuntato con note sonore.
La
sua “pinacoteca” è conservata nella piccola dimora presa in affitto del
palazzetto Ermini, edificio che si affaccia sulle attuali Via Sistina
(all’epoca denominata Strada Felice) e Piazza Barberini; in quegli “ristretti” locali
troneggia una Madonna del
Sassoferrato, nonché si ha notizia di opere di Carlo Maratta, di Francesco
Trevisani, di Gaspard Dughet e di altri pittori italiani e nordeuropei.
Essa
modula un dialogo estetico denso di colori, di figure, di gestualità
caratterizzanti altresì la musicalità corelliana, che, nella sua vivacità,
rimane però salda affermando un’eleganza “classica”, la quale non affronta,
dunque, quelle trame “azzardate” così ben definite nel linguaggio “barocco”,
eppur vicine a quel suo mondo sonoro, tanto che, questo, si rivela
squisitamente correlato con la grandiosa visione di Roma, creata dal Bernini,
dal Borromini e dal Cortona.
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