Antonio
Cordini (o Cordiani), detto Antonio da Sangallo il Giovane, riferendosi all’area
corrispondente a “S. Pietro a Montorio”,
annota che essa “vede” tutta “Roma”. La suggestività del paesaggio,
della scena, propria fin dai tempi remotissimi di questa zona collinare, il
Gianicolo, ancora oggi in gran parte intatta, fronteggia una nobile amenità,
che si dilata in un incantevole sconfinato spazio nel quale si raccolgono evocazioni
mitologiche e storiche, andatura di toni lirici che effondono memorie
religiose. In questo incanto, così intimo eppure così visibile, si muovono
lontane le narrazioni figurate di divinità antiche: Giano – da cui discende il
nome del Colle-, antichissimo dio solare; Fons, dio dei pozzi e delle
sorgenti; Furrina, dea delle acque correnti; Iside, dea egizia della maternità e della fertilità.
Su tale sacralità remota vi s’innesta l’acuto chiarore di una tradizione
altomedievale, che, elevando questo fianco del colle tra i protagonisti della Storia
del Cristianesimo, inizia a indicarlo come luogo in cui sarebbe stato
crocifisso S. Pietro, da qui il ricordo vive testimoniato, tra la fine del
secolo VIII e l’inizio del IX, dalla presenza del Fons Sancti Petri, ubi est carcer eius (Fonte –anche in senso figurato- di
S. Pietro, dove è la –sua- stessa
prigione), forse connesso a un convento edificato con molta probabilità
nella medesima epoca, che avrebbe ampliato, secondo alcuni studi, un precedente
monastero (VI o VII secolo). La dedicazione dell’area, al solo Apostolo, però avviene
più tardi; infatti, sorge nei pressi un altro luogo di culto ma è dedicato ai
SS. Giovanni e Paolo (VIII secolo), seguito alla fine del XII secolo dall’oratorio
di S. Angelo “in Ianiculo”, sorta di minuta
cappella isolata. Nella prima metà del XIII secolo si afferma, definitivamente,
il riconoscimento devozionale in loco,
del martirio petrino e il complesso monastico viene affidato alle monache
benedettine, ma in meno di un secolo giace in rovina, abbandonato ormai da
lungo tempo.
Un’aura di enorme misticismo rinnova però il
fatiscente sito, grazie all’opera del beato Amedeo di Portogallo, religioso
francescano, dalla incerta biografia e dal dubbio cognome. Per volere di papa
Sisto IV, già Ministro generale dei Frati Minori, egli diviene il confessore
del Pontefice e il responsabile della ricostruzione integrale del complesso che,
occupando parzialmente il perimetro di quello antecedente, deve assumere forma
monumentale, inno architettonico a S. Pietro Apostolo (1471). Tra il 1472 e il
1482 questo mistico frate, che spesso si ritira nell’ascetica solitudine offerta
dallo scosceso sito (la cavernula,
che una voce devozionale, datata XVI secolo, la colloca sub crucifixione Petri: piccolo antro posto ai piedi della
crocifissione di Pietro) ne inizia lentamente la rifondazione, la quale riceve
un forte impulso dal 1481 per il coinvolgimento del re di Francia Luigi XI, a cui
dopo la morte (1483) subentrano i reali di Spagna (segmento di un piano di
influenza ed espansione in Italia), Ferdinando il Cattolico (II d’Aragona, V di
Castiglia e Leon, III di Napoli, II di Sicilia) e Isabella di Castiglia, fissando da quel
momento l’indissolubile presenza spagnola in questa parte del Gianicolo. Le
committenze che si susseguono d’ora in poi, volte a illeggiadrire la nuova sede
monastica, affidata alla “societas
fratrum”, ossia ai Frati Minori seguaci di Amedeo in seguito detti
Amadeiti, suggellano il proposito di celebrare l’Apostolo, primo pontefice,
attraverso il quale esaltare il papato e la sua sede e, in qualche visibile
maniera, quella potente monarchia non italiana. Avviene, per mezzo di questo
indirizzo, uno stretto legame tra l’illustre storia, nonché i miti, dell’antica
Roma e le memorie della tradizione cristiana, confluendo i relativi segni
distintivi nella glorificazione della “Città Eterna”, intesa quale nuova
Gerusalemme, compiendosi idealmente la summa
ove coincidono la cultura della classicità e la sapienza rivelata del Cristianesimo.
Infatti, il lavoro spirituale del beato Amedeo diffonde i suoi esiti anche dopo
la morte (1482), essendo ritenuto l’autore del testo Apocalypsis Nova (con buona probabilità scritto intorno al 1502 dal
francescano Juraj Dragisic, detto Benigno Salviati), durante la sua permanenza
presso, il costruendo, complesso monastico di S. Pietro in Montorio. Testo molto
famoso durante il Cinquecento e i primissimi anni del Seicento (mai stampato ma
con una straordinaria diffusione manoscritta), dettatogli, secondo le fonti
agiografiche, dall’Arcangelo Gabriele nella
cavernula durante i raptus, per svelargli i misteri della
Fede e alcuni importanti avvenimenti futuri (in realtà successivi agli stessi accadimenti,
secondo la vera datazione dello scritto).
Gli argomenti sviluppati nello scritto,
attribuito dunque al Beato, s’incardinano sulle memorie dell’Apostolo, munendo
di solidi temi le prime fasi costruttive e decorative dei nuovi edifici, una
straordinaria progressione di soggetti teologici, respiro donato al voto
sostenuto dai medesimi sovrani, Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia,
come ringraziamento per la nascita del figlio maschio (1478), erede al trono. Questo
“impegno di fede” è mantenuto nonostante la morte del, giovane, principe reale Don
Juan (1497), prendendo forma per mano di Donato Bramante, che realizza il
celebre “Tempietto” -ora anche articolata cappella eretta in memoria del regale
personaggio- in due diversi momenti come si ipotizza: nel 1502 crea la cripta e
nel 1509, circa, innalza il corpo superiore.
Il vivido linguaggio simbolico espresso dalla
piccola struttura, rappresenta sia concetti strettamente connessi a figurazioni
cosmiche, sia simboli alludenti all’eroismo dei martiri cristiani, alla
liturgia, alla Chiesa delle origini, a quella militante sulla Terra, a quella
trionfante nella gloria dei Cieli.
Il "Tempietto": ambiente superiore |
Apocalypsis Nova
quindi, ampio trattato teologico e filosofico elaborato in otto raptus (visioni estatiche) e novantadue sermones (rivelazioni spirituali); tra
questi ultimi il settimo contiene un’elaborata argomentazione sulla
Trasfigurazione di Cristo, contenuta nei Vangeli di Matteo (capitolo 17), di
Marco (capitolo 9) e di Luca (capitolo 9), episodio che ritroviamo dipinto nel
catino dell’abside della prima cappella, del lato destro, della chiesa. Opera
di Sebastiano Luciani, noto come Sebastiano del Piombo, si differenzia da
quella ritratta da Raffaello -sino al 1809 orna l’abside maggiore di questo
luogo di culto, sopra il coro; oggi incommensurabile gioiello della Pinacoteca
Vaticana- rispecchiante, nella rappresentazione dell’intero impianto,
l’immagine della seconda venuta del “Figlio
dell’Uomo”, prossima quindi al ragionamento sviluppato nella “Apocalypsis Nova”. Quella invece presente
ancora in S. Pietro in Montorio, sebbene accolga il significato escatologico
della parusia così pregnante nel sermone cui si riferisce, riverbera una
metafora sostanziata dal chiarore dell’incarnato e della veste del Messia, sole
che, grazie ai suoi rilucenti raggi, toglie i peccati del mondo, come afferma
S. Agostino: ” Il Signore in persona si
fece splendente come il sole, i suoi abiti divennero bianchissimi come la neve
… Sì, proprio Gesù in persona, proprio lui divenne splendente come il sole, per
indicare così simbolicamente di essere lui la luce che illumina ogni uomo che
viene in questo mondo … I suoi vestiti sono la sua Chiesa … mediante il vestito
bianchissimo viene simboleggiata la Chiesa, dal momento che sentite dire dal
profeta Isaia: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, li farò
diventare bianchi come neve …”. Vedete quanto sinteticamente afferma l’Apostolo
(S. Paolo): ” … Ora … si è
manifestata la giustizia di Dio …”, ecco il sole … ecco lo splendore”. (Discorso
78, Sulle parole del Vangelo di Matteo, capitolo17, versetti da 1 a 8). Osservando
il dipinto dunque assistiamo, come dinanzi al Tempietto, all’interpretazione
artistica di quanto sia profondo e intenso il legame tra Chiesa militante e
Chiesa trionfante.
Il variegato valore simbolico leggibile, che attinge
alla mitologia classica coniugandola ad elementi iconoci cristiani, è
arricchito dalle “Sibille”, che
decorano l’arco esterno della terza cappella del lato destro della chiesa;
affresco attribuito a Baldassarre Peruzzi, sormonta il vano in cui sono
raffigurate scene (di Michelangelo Cerruti) della vita di Gesù Cristo (Presentazione al Tempio) e della Vergine,
percepibile rimando di una ispirazione divina delle profetesse, vergini, del
mondo pagano, mediatrici particolari tra le divinità e gli uomini. Ritratte con
piena levità sottintendono, per come è impostata tutta la scena, la predizione
dell’avvento messianico anche nel mondo pagano.
L’avvicendarsi in S. Pietro in Montorio, come
in altre “fabbriche” romane, di trasformazioni del “già edificato” nonché dei
relativi lavori di abbellimento ornamentale, vede, principalmente tra la metà
del XVI secolo e la metà del XVII, il deciso intervento di altri maestri, cui
le opere declamano i nomi, per citarne alcuni, di Giorgio Vasari, di Daniele
Ricciarelli detto Daniele da Volterra, di Gian Lorenzo Bernini, di Niccolò Circignani detto Pomarancio; il visitatore perciò è avvolto, da ogni canto, dall’espressiva
bellezza che non è breve epidermica grazia, poiché essa incide empaticamente sull’animo.
Questa intima partecipazione e
immedesimazione attraverso la quale si compie, quasi misteriosamente, il
comprendere estetico e il significato intrinseco di quanto, l’Arte, qui espone,
mi conduce dinanzi al drammatico dipinto raffigurante “Cristo portacroce”, di mano fiamminga caravaggesca, che connota la
parete destra della quarta cappella del lato sinistro.
A Roma, dagli inizi del Seicento, soggiornano
“innumerevoli fiamminghi e francesi che
vanno e vengono”, come osserva Giulio Mancini, medico, collezionista
d’arte, molto presente nell’ambito intellettuale romano tra la fine del XVI
secolo e il primo trentennio del XVII. In effetti, l’opera del Caravaggio
conosce un enorme seguito oltre che in Italia, in Francia (tramite Valentin de
Boulogne, in Roma verso il 1611, primo caravaggista di quella nazione) e nei
Paesi Bassi (il più noto pittore caravaggesco fiammingo, Gerrit van Honthorst,
detto in Gherardo delle Notti, lavora a
Roma dal 1610 al 1619) grazie all’esperienza artistica acquisita dai, giovani, autori
–che soggiornano prevalentemente nella “Città Eterna”- di ritorno dall’Italia,
fonte del seguito altresì “internazionale” del linguaggio del Merisi.
La chiesa del Gianicolo non può essere perciò
esente da tale temperie, della quale conserva la decorazione pittorica di quella
cappella, dove risalta la pala raffigurante la “Deposizione di Cristo”, di Dirck van Baburen. Egli è interprete
personale -appare evidente la morbidezza delle figure e la forte attenuazione
dell’oscurità retrostante rispetto alle tele del Caravaggio- del tema già disegnato
dal Merisi, “Deposizione” magistrale
opera oggi custodita presso la Pinacoteca Vaticana. Questo vano è completamente
ornato dunque da pittori fiamminghi: il già citato van Baburen; l’artista non
individuato, fra differenti ipotesi, della “Disputa
tra i dottori”, che definisce la parete sinistra; l’interprete di felice e di vigorosa cifra caravaggesca,
David de Haen, cui è ascrivibile il “Cristo
deriso” della lunetta destra e la “Disputa
tra i dottori” della lunetta sinistra. Rimane da osservare un altro
pregevole cammeo, già citato, per il denso pàthos
che suscita, ossia il “Cristo portacroce”,
assegnato generalmente al creatore della pala d’altare, ma per alcuni studiosi attribuibile
al de Haen, che giunge a Roma, intorno al 1617, insieme al suo amico van
Baburen e ambedue lavorano all’ornamentazione pittorica della cappella.
Da mie ricerche condotte è supponibile
identificare nel van Baburen l’esecuzione del primo disegno e nel de Haen l’originale
mano del dipinto, come appare dimostrare la “struttura plastica”, discosta dalla
“scena di genere”, in cui spesso van Baburen indugia. Il confronto con lo
spessore artistico della “Deposizione”
tesse, involontariamente –forse-, una trama che sorprende, poiché la pittura
laterale sembra quasi relegata in una posizione subalterna, di contorno
descrittivo e invece stupisce con la poderosa presa del lavoro, che vuole
essere intenzionalmente guardato, non visto.
L’azione
si svolge lungo la salita al Golgota,
ovunque s’infittiscono personaggi concitati e atteggiamenti drammatici, la luce
indagante trasforma il chiaroscuro in un insieme di colori tenui ma vibranti,
che dichiarano una preziosità tutta fiamminga; il Cristo, dolorante, è piegato
dalla gravità della croce, gli è vicina la Veronica, che afflitta tende il
“sudario” verso il Suo volto straziante. Tutta la scena però non tracima in un tonante
pietismo, al contrario in essa viene effigiato quanto può presentarsi agli
occhi senza cadere “nell’accademico” realismo, questo termine definito, in maniera
ferma e condivisibile, dal celebre critico d’arte Roberto Longhi:” vocabolo utile solo per le spiegazioni di
manuali collettivi di storia dell’arte, è ammissibile qualora indichi la forma
resa non per ideazione prefissa di organismi energetici, ma, al contrario, per
sodezza particolare del tessuto cromatico, del colore alieno sia da favolose
divagazioni iridate … sia delle targhe cromatiche … però
sovrapposto in impasti vividi, schietti e delicati e studiato con diligenza nei
minimi trapassi locali, come uno stagnare sanguigno sugli zigomi di un martire o nel formarsi di piccole chiazze di cangiante tessuto iridescente su
per le vesti … indossate … da figure di santi raffigurate in affastellate scene
affrescate” (da “Gentileschi padre e
figlia”, 1916).
In
questo lavoro, la luce, evidenzia le sezioni dei piani disegnati con brillante veracità,
stillata dalla scenografia religiosa, risolta dall’artista con efficacia
soffermandosi sui particolari cromatici, sui campi contrapposti che
maggiormente risaltano sullo scuro fondo. La scena diffonde una grande finezza,
apparendo solida e con un ritmo compatto, combaciando l’oggettiva attendibilità
degli atti rappresentati con la spessa tensione, non artatamente esternata,
anzi, scevra da qualsiasi enfatizzazione, emana un profondo “tono interiore”,
il quale attraversa ogni parte con elementi cromatici omogenei disposti secondo
un, intenso, ordine; i mossi riflessi sono irradiati di rosso scarlatto e di
celeste e di bianco e di aureo giallo, colori versati fuori dall’inesorabile
bruna ombra. Si avverte uno studio, non alterato dalla ridondanza, delle figure
e dei piani, dai quali lo svolgimento di questo passaggio, della passione di
Cristo, non è stretto tra i preziosi bordi che lo incorniciano ma erompe per
imprimersi, vivo, negli occhi dello spettatore, quasi che lo spazio pittorico
contenga quello dell’astante, di cui, pur rimanendo integra la dimensione
spaziale, la sua padronanza visiva non sembra fermarsi ai lati, esterni,
delimitanti la pittura. L’incarnato del Messia ancora resiste sotto lo sferzare
del dolore, i pigmenti, le stoffe formano quasi un tutto unico, sebbene
distinti rimangano gli eterogenei elementi, sino a lambire una sensazione di
concreto che si trasforma in tangibilità. Le forme non illanguidiscono secondo
un gusto di vacua appariscenza ma sono raffigurate con veemenza e l’accuratezza
che vi permane non cede a, un’inanimata, suggestione figurata, poiché tutte le
acute qualità autenticamente s’intessano in una sinfonia, che esprime
stringente dolore. Eppure in essa è viva l’armonia nei modellati, nei visi,
nelle membra tese degli “aguzzini”, in quelle doloranti di Cristo, il quale nel
Suo sguardo è contenuta tutta la compassione per il genere umano, verso cui
ancora rivolge parole di esortazione e d’insegnamento che la Sua figurata espressione
pronuncia: ” Figlie di Gerusalemme, non piangete per
me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli. Perché ecco, verranno
giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili e i seni che non hanno generato e le
mammelle che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti:
‘‘Cadete su di noi!’’, e alle colline: ‘‘Copriteci!’’. Perché, se fanno queste
cose al legno verde, che avverrà del legno secco?» (Luca,
capitolo 23, versetti dal 28 al 31).