Le
“Scuderie del Quirinale” ospitano, sino al prossimo 26 giugno,
l’interessantissima mostra “Correggio e
Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento”, che, riguardo al secondo
artista, segue quella dedicata a “Raffaello,
Parmigianino e Barocci. Metafore dello Sguardo” svoltasi, fino al 24
gennaio di quest’anno, negli spazi di Palazzo Caffarelli.
Tramite
questo post intendo volgere
l’attenzione a una delle più considerevoli opere esposte nella rassegna in
corso: la “Danae” di Correggio, proveniente
dalla Galleria Borghese.
Di
questo maestro a Roma è conservato soltanto un altro suo lavoro, vale a dire la
mirabile “Allegoria della Virtù”,
incompiuta tempera su tela (Galleria Doria Pamphilj) definita, in un documento
degli inizi del XVII secolo, quale “concerto
di varie figure di donne”, probabilmente versione antecedente a quella
esposta al Louvre di Parigi.
Antonio
Allegri, detto il Correggio (1489, circa - 1534) presente nella “Città Eterna”,
come la gran parte degli studiosi oggi suppone, per un breve ma intenso periodo,
tanto da apprendere i modi creativi di Raffaello, oltre che di Michelangelo, come
dimostra l’impianto iconografico espresso nella “Camera della Badessa” -Giovanna da Piacenza- del Convento benedettino
di S. Paolo a Parma (1519, circa), in cui le soluzioni raffaellesche sono
rielaborate con un linguaggio personale.
In
sostanza, nella sua cifra si avverte il forte respiro della classicità,
quell’alternarsi dialogico di proporzioni e di spazi da cui fluisce un rigoglioso
confronto con “l’antico”, proponendo una pregevole levigatezza cromatica, la
quale conferisce fluidità alle forme circonfuse dalla tenue aura dello sfumato,
diffondendo un nuovo e acuto sentire, che supera pose connotate da affettata dolcezza
e da astratta grazia, che egli, invece, manifesta attraverso un cambio di
visione, in un impianto di squisita classicità, carattere questo che può prendere
forma soltanto con il contatto diretto con la grandezza e la maestosità delle antiche
memorie artistiche romane, con l’enfatica estensione delle superfici, esterne e
interne, architettoniche, risonanze che s’imprimono su quanto realizzano i
diversi autori.
La
poetica del Correggio accoglie la figurata morbidezza, identificandola però
attraverso un’evocativa suggestione, nutrita da una naturalezza interpretata
attraverso accostamenti, i quali trasmutano i personaggi raffigurati in “vera carne”,
superando, concretamente, l’erudita aulica citazione del modo derivante
dall’antichità; i contenuti pittorici perciò dissigillano un sentimento di
verità e di vita.
Se
il disegno, nella sua epoca, agisce come valore normativo, egli, ammorbidendone
e sfumandone i contorni, volge il suo linguaggio verso una figurazione di moti
e di “affetti”, espandendo le forme e unendo i personaggi in una sorta d’insieme
di graduali sovrapposizioni, sfocianti in una piena circolazione di movimenti affettivi,
che coinvolgono lo spettatore sollecitandone i sensi. Questo fecondo ingegno,
caratterizzante le opere correggiane, costituisce quasi un proemio di quella
vitalità creativa e di spessa presa emotiva, che saranno elementi, tra altri, propri
del Barocco. Un prototipo dunque, una traiettoria colma di nuovi contenuti
“semantici”, i quali dissuggellano l’afflato artistico esponendo un’intima vocazione
affettiva, che congiunge inscindibilmente fra loro i protagonisti raffigurati e
questi al circostante ambiente dipinto. L’esito di questa efficacia
rappresentativa è compiuto nelle immagini, che sembrano muoversi con vivido animo,
dove alloggia un reale sentimento umano, così individualmente irrepetibile.
Della
statuaria classica, il nostro pittore, predilige i modelli ellenistici
derivanti da quella duratura evoluzione, che sbocca nell’accentuazione
curvilinea di profili, di sagome, di contorni così capaci di esprimere
“l’affetto”, questo inteso quale penetrante espressione psicologica della
figura umana, moto dell’animo pur attraverso soggetti di carattere erotico o
più finemente sensuale. Impiegando segni grafici arrotondati e sinuosi, il
Correggio riesce a vivificare quell’intimo sentire che sorge nella e
dall’azione disegnata, non solo nelle forme carnose e impregnate di luce,
tratti distintivi delle immagini “profane” ma altresì in quelle a carattere
sacro, -egli è “silenziosamente” eccelso anche in tali temi di riferimento- che
ne confermano la prodigiosa poetica tangibilità, organizzando anche semplici
però studiatissimi schemi, in cui la tensione emotiva, che avvolge le figure, infonde
compattezza e pienezza alle azioni, dove le decorazioni delle vesti –suntuose e
ondulate, “empaticamente partecipi” del cardine della scena- o la disposizione
dei panneggi, che avvolgono, spesso in parte, le nude membra disegnate in pose
composte ed eleganti, sono consegnati alla vista con particolare dovizia e pur
gli oggetti più semplici della quotidianità trovano, accurata, dignità
interpretativa. Nella sua sacralità dipinta insiste una palpitante naturalezza,
assai difforme dalla muta reinterpretazione degli esempi forniti dagli schemi
classici.
Nei
lavori, il Correggio, riversa una cultura pittorica e mitologica avanzata, nella
quale convergono, in una personale e originale sintesi, i “rimandi” a modi
raffaelleschi e a “misure” michelangiolesche, la conoscenza della scultura
antica, -paradigmatica dei corpi belli e floridi- gli echi leonardeschi per la
finezza espressiva e il “metodo” veneto, che dalla fine del XV secolo inizia a esporre
una nuova stesura del colore. Questi “dati” assieme acquistano un notevole
personale spessore negli argomenti delle sue pitture, dagli accenti d’innocente
tenerezza, di sensuale leggiadria e di felice immediatezza, complessità
“animata” non da tutti compresa durante l’intero scorrere del XVI secolo.
Proprio la percezione dell’intelletto per mezzo dell’esperienza dei sensi,
rappresenterà quasi un primigenio margine di ciò che svilupperà, come detto, il verso espressivo barocco.
Il
Vasari descrive “Antonio da Correggio”
come “suggetto alle fatiche di quella
(dell’arte) e grandissimo ritrovatore di
qualsivoglia difficultà delle cose … Et egli fu il primo, che in Lombardia
(così identificata altresì la parte della Pianura Padana a sud dell’attuale
regione lombarda e dunque anche Correggio, città natia dell’artista) cominciasse cose della
maniera moderna … nessuno meglio di lui toccò colori, né con maggior vaghezza o
con più rilievo alcun artefice dipinse meglio di lui, tanta era la morbidezza
delle carni ch’egli faceva, e la grazia con che e’ finiva i suoi lavori … per
questo il Correggio merita gran lode avendo conseguito il fine della perfezione
ne l’opere … le quali … vedendo Giulio Romano, disse non aver mai veduto
colorito nessuno ch’aggiungesse a quel segno: l’uno era una Leda ignuda
(Leda e il cigno, oggi allo Staatliche Museseen di Berlino) e l’altro una Venere, (da identificarsi
con la Danae “romana”) sì di morbidezza
colorito e d’ombre di carne lavorate, che non parevano colori ma carni … né mai
lombardo fu che meglio facesse queste cose di lui, et oltra di ciò, capegli sì
leggiadri di colore e con finita pulitezza … condotti, che meglio di quegli non
si può vedere”.
Il
Correggio, pittore dell’amorevolezza spirituale, della storia sacra calata in
maniera convincente in una profonda atmosfera d’intimità quotidiana ma anche d’intenso e vivo dolore. la
cui lettura unisce, nobilmente, la sofferenza interiore con l’afflitta voce
esteriore che è udibile dallo spettatore, come asserisce Francesco Scannelli (Microcosmo della pittura, 1657), è anche
l’autore di un erotismo ideale, anticipando molti artisti anche dei secoli
successivi. Infatti, la sua pittura rispecchia quell’interesse, generatosi con ”
dotto respiro” nel corso del Rinascimento, per l’estasi e la pratica amorosa;
in quest’epoca gli amori degli dei divengono un mezzo fissato con autorevolezza
dall’ambiente intellettuale, che ha riscoperto, particolarmente, l’Ars Amatoria di Ovidio, fine opera
didattica composta tra il termine del I secolo a. C. e l’inizio del I secolo d.
C., già bene accolta da tutta la società raffinata della Roma antica, il cui
argomento è incentrato sulla conquista dall’amata e dell’amato e sulla
“metodica” per serbare acceso l’amore. Quel lodato testo, proveniente dal
passato, assume carattere di praticabile possibilità di figurare, con libertà,
degli episodi sessuali, altrimenti inibiti dall’èthos corrente; proprio da tale temperie il nostro artista trae
ispirazione e l’amore sensuale diviene un soggetto molto frequentato dalle sue
raffigurazioni; il “clima” erotico viene realizzato in sue numerose opere,
oltre che dalle azioni e dagli atteggiamenti, dalle espressioni estatiche. Una
palese fusione tra sensualità, mai lasciva, e immagine del sesso nel contesto
amoroso; il gesto dell’erotismo non si palesa nella nudità, quale valore
autonomo, poiché il Correggio offre visivamente quella carnalità illustre
attraverso una visione grandangolare seducente e la solida sensazione
d’imminenza dell’atto, scena creata per essere guardata da vicino, in una
stanza, solitamente appartata dal resto dei vani della dimora nobiliare. Su
quel medesimo “obiettivo” convergono quegli incarnati così reali e dai levigati
profili, che sembrano ammantati soltanto di “dolce aria” grazie a un
virtuosismo, non soltanto “tecnico”, tale da dirigere la sua mano, con bravura massima,
nelle difficili masse pittoriche, come annota di nuovo il Vasari: ” E fece della pittura grandissimo dono ne’
colori da lui maneggiati come vero maestro, e fu cagione che la Lombardia
aprisse per lui gl’occhi, dove tanti belli ingegni si son visti nella pittura,
seguitandolo in fare opere lodevoli e degne di memoria; perché mostrandoci i
suoi capegli fatti con tanta facilità nella difficoltà nel fargli, ha insegnato
come e’ si abbino a fare. Di che gli debbono eternamente tutti i pittori …”.
I capelli nei suoi dipinti sono morbide ciocche d’oro ramato, o di oro chiaro e
brillante di morbidi riccioli, o ancora d’oro brunito, come le chiome della “Danae” che lievemente cadono su una
spalla. Sua è la capacità illusionistica che raccoglie dal “mondo naturale”, tradotto
con forte intensità, dalla sua poetica, con sorprendenti esiti.
Riguardo
a questo ultimo dipinto lo storico dell’arte, Giovanni Morelli, nel suo libro Della pittura italiana, studi storico
critici. Le Gallerie Borghese e Doria Pamphili in Roma (1897) asserisce che:
” Non conosco nessun’opera moderna la
quale per questo rispetto (l’espressione del sentimento) abbia più diritto d’essere posta accanto
alle creazioni artistiche dei Greci”.
Probabilmente l’opera (compresa nella “serie” degli Amori di Giove) è commissionata da Federico II Gonzaga, duca di
Mantova e marchese del Monferrato, ed eseguita tra il 1531 e il 1533; essa ulteriormente
mostra un eminente equilibrio fra contenuto e forma, come se, la vicenda
artistica corregesca, volesse concludersi (egli morirà intorno ai 45 anni, il 5
marzo 1534) con le cadenze di un erotismo esplicito però soffuso, in una gloria
durevole ove si aduna l’ammirazione di molte voci tra cui quella di Stendhal,
il quale nella sua Histoire de la
peinture en Italie (1817) ne esalta “la
gràce” e anche “la volupté” e “le beau idéal moderne”.
L’azione
svolta in questa tela s’ispira a un brano mitologico, secondo il quale Danae
figlia di Acrisio, re di Argo, è rinchiusa in una torre dal padre, affinché non
concepisca un figlio, avendo saputo da un oracolo che questo lo ucciderà. Vana
però si rivela la sua precauzione poiché Giove, innamoratosi della giovane
donna, a lei si unisce sotto forma di pioggia d’oro, rendendola madre di
Perseo.
L’episodio
è “allestito”, dal Correggio, in una stanza da letto aperta da una spaziosa
luce, spalancata su un etereo e indefinito paesaggio, che rappresenta uno dei
suoi rari lavori in cui la raffigurazione non sia narrata “all’aria aperta” -mostrando
ugualmente convincenti sfumature di luce e naturale compiutezza- e il solo a
essere del tutto disegnato in un interno domestico. Questa particolarità
consente di scandire il “tratto antico” dell’immagine nella sua interezza, come
esplicita la minuziosa descrizione del letto, reminiscenza reinterpretata di
quel mondo greco-romano. Proprio in quell’antico lido l’artista conduce lo spettatore, cui si
svela Danae come candida Voluptas, -figlia di Cupido (Eros) e di
Psiche- dove ella colta nell’atto di congiungersi, con il re degli dei, non esibisce
alcuna movenza volgare, nessuna aria provocante la pervade né lei diffonde, pur
se completamente opposta a qualsiasi immagine che mostri pudicitia.
Il
Lomazzo, nell’ammirare l’interrotta attrattiva di quest’opera, scrive nel suo “Trattato dell’arte de la pittura, scoltura
et architettura di Giovan Paolo Lomazzo milanese pittore, diviso in sette libri
ne’ quali si discorre de la proportione, de’ moti, de’ colori, de’ lumi, de la
prospettiva, de la pratica de la pittura, et finalmente delle istorie d’essa
pittura” (1584) che “per l’eccellenza
de’ lumi sono non meno meravigliosi due quadri di mano d’Antonio da Correggio …
nell’altro Danae e Giove che gli piove in grembo in forma di pioggia d’oro, con
Cupido et altri amori, co’ lumi talmente intesi, che tengo di sicuro che niuno
altro pittore in colorire et allumare possa agguagliarli …”. Personaggio di
risalto della cultura artistica italiana, della seconda metà del XVI secolo,
nelle Rime (1587) ancora egli elogia
la liricità plastica del Correggio con questi versi: ” Te sopr’human pittor nominar posso,/ tanto nel colorar fosti primario./
Ciò mostrar … di Danae con l’oro addosso./ … in viso gaio con amor gode de l’or
c’ha nel scosso./Questi son tali, che da mortal mano/non paion pinti ma da man
celeste./E in lodar, lor ogn’un s’adopra in vano./Ne meno son l’altre opre
vaghe e deste,/che sono uscite dal Correggio humano./Ma fan l’altre del mondo restar
meste”.
Il
pittore sceglie di raffigurare, la protagonista, come una giovane poco più che
adolescente, ponendo al suo fianco un “genio”, lo spirito d’amore -richiamo a
Cupido, arguta felice idea del Correggio- sul cui viso, rivolto verso il cielo,
è impressa una “serena vicinanza affettiva”; egli è l’intermediario celeste di
questo incontro altro, sollevando con la mano sinistra il niveo lenzuolo e, con l’aperta
palma di quella destra, sembra “avvertire” le aure gocce indicando il
pube della fanciulla. Questa a sua volta, con lieve gesto, tiene il candido telo,
delicatamente trattenuto per un istante; non esprime né paura né stupore per
l’evento straordinario che sta per concretarsi, mentre le sue eburnee nude
membra, così scoperte, sono percorse dai suoi quieti occhi. Sollevata da molli
cuscini, un accennato sorriso accompagna il suo sguardo in un’armonia di tenui
seni, di ventre adagiato, di aperte gambe che stanno per essere, completamente, “liberate” dal panno. L’azione
scenica viene assolta per mezzo di un sapiente dosaggio dei colori limpidi, che
sui tessuti stesi sul talamo accrescono il suo perlaceo colorito. Tutto canta
alla letizia e alla tenue, delicata gaiezza che scaturisce da una sottile
profondità psicologica, la quale vuole Danae
attiva spettatrice del suo stesso snudare e nel contempo dilettata ammiratrice,
forse un po’stupita, del suo morbido corpo. Ignara della presenza dello spettatore (che si pone innanzi alla tela), sorride appena tra sé e sé accingendosi ad accogliere
il signore di tutti gli dei, tanto vicino all’osservatore medesimo da
essere segretamente percepito nella sua intimità. I capelli della mitologica
principessa, come li abbiamo già ammirati, sono ordinati entro boccoli ma non
rigidamente, anzi cadono con soave naturalezza giù dalla nuca posandosi sulla
spalla destra: ella è veramente viva e non apparenza immaginata.
L’intera
atmosfera si rivela incantevole, serena, piena di nitido tepore, che la presenza,
non ovvia, dei due amorini amplia, i quali, citando ancora il Vasari: ” … che de le saette facevano prova su una
pietra, quelle d’oro e di piombo, lavorati con bello artificio …”. Essi ritraggono una colta citazione del
pittore, rivolto all’episodio di Apollo e Dafne incluso nelle Metamorfosi di Ovidio, ove, per volontà
di Cupido, è consegnato al dardo d’oro il suscitare dell’amore e a quello di
piombo il rifuggire di questo sentimento. Fine dicotomia effigiata dalla seria
laboriosità dei due amorini, interamente presi dalla loro “prova” esercitata su una “lavagnetta” di
ardesia, resi, molto gradevolmente, indifferenti allo stupefacente accadimento
in atto alle loro spalle.
Il
gioco dei putti è un tratto particolare nella maggioranza delle opere correggiane,
di carattere mitologico, mutuato dalla tradizione antica, ben visibile e
sviluppato in modo autonomo; i fanciulli sono raffigurati in diverse pratiche, con
il visetto tondo e serio, il piccolo naso, l’ampia fronte, i riccioli dorati, tratti
fisionomici ricorrenti e confermati nel “nostro” quadro, in cui la spontaneità
espressiva e gestuale risalta da quell’angolo estremo inferiore, così posti a
chiusura della tela per evidenziare la continuità spazio-temporale dentro e
davanti alla scena dipinta.
L’intatto fascino della Danae scorre negli animi delle
generazioni artistiche e non solo, attrattiva sgorgata da quella cifra
stilistica che Anton Raphal Mengs, uno dei maggiori riformatori della pittura in
gusto neoclassico, esalta con questa frase: ”niuno, se non è Michelangelo seppe al pari di Correggio la scienza
delle forme e la costruzione della forma umana".
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