La
misconosciuta e quasi nascosta chiesa di S. Maria in Publicolis è situata nell’aerea
limitrofa all’attuale Largo di Torre Argentina e all’odierna Via delle Botteghe
Oscure, dove il Portico di Minucio si espandeva tutt’intorno a un’enorme
piazza, al centro della quale si ergeva un tempio (non identificabile), costruito dal console Marco Minucio
Rufo (Porticus Minucia Vetus) nel 110 a.C., pur se alcuni studi
individuano tale ambiente intorno ai templi della - anche così denominata - Area
Sacra di Largo Argentina.
Dopo
il grande incendio dell’80 d.C. che devasta l’intera zona, avviene un’intensa
attività edificatoria, che comprende altresì la costruzione del Porticus Minucia Frumentaria sotto
l’imperio di Domiziano (81-96 d.C.), luogo deputato per la distribuzione
gratuita del grano a favore del popolo.
La
chiesa è menzionata nel cosiddetto catalogo Salisburgense, anteriore al 682,
antico documento che cita i luoghi di culto della Roma cristiana e nel codice
della biblioteca del monastero di Einsiedein (Svizzera) del secolo VIII, così
come in un codice compilato durante il pontificato di Leone III (795 – 816),
mentre nella bolla di Urbano III (1185 – 1186) è indicata, quale luogo
sussidiario di culto di S. Lorenzo in Damaso, “S. Maria in (o de) Publico”, espressione latina (mettere a disposizione del pubblico) che
rimanda, probabilmente, al ricordo dell’antico Porticus Minucia Frumentaria.
Durante
il XIII secolo la famiglia Santacroce
ottiene, su questo luogo di culto, il giuspatronato, vale a dire il diritto di proteggerla e di mantenerla, dotandola di beni patrimoniali dai quali essa (e soprattutto chi
la gestisce) ne tragga rendite. Proprio per decisione dei Santacroce che, nel
1465, la chiesa è ampiamente restaurata.
L’influenza
di tale nobile famiglia romana, – sin dal 1250 definita nei regesti delle
famiglie dell’Urbe come “antiquissima”-
in questa area della “Città Eterna”, è così predominante da vantare la
discendenza dal console Publio Valerio Levino (Publicola Valerius Laevinus), che nel 280 a. C. combatte con
successo contro Pirro. Questa forte volontà di nobilitare maggiormente la propria
origine, ricongiungendola all’antica Roma quale aulico lignaggio dei Valerii Publicolae, i Santacroce,
intorno alla metà del XVI secolo, aggiungono al loro cognome l’altro di
Publicola ed essendo anche i proprietari di un vicino palazzo, imprimo altresì
alla chiesa il nuovo appellativo, che permarrà, “in publicolis”. Nel
medesimo periodo, Prospero Santacroce, viene creato cardinale di Santa Romana
Chiesa da Pio IV nel 1565, mentre Antonio, suo nipote, lo diviene nel 1629 e
Marcello, nipote di Antonio, lo è dal 1652, cui segue nel 1699, in questo alto
titolo di prelatura, Andrea il nipote di Marcello.
Nel
1643 ormai fatiscente e preannunciando una tremenda rovina, la chiesa è demolita
e riedificata per volontà dell’alto prelato, all’epoca ancora non cardinale,
Marcello Santacroce, che ne affida i lavori a Giovanni Antonio De Rossi, che
interamente la edifica.
Le
trasformazioni avvenute altresì nell’ambito ecclesiastico cittadino, dovuto pur
agli avvenimenti storici succedutesi (Repubblica Romana filofrancese 1798 –
1799; occupazione napoleonica 1809 – 1814), costituiscono i presupposti di
quanto Leone XII, con l’enciclica Super
universam del 1° novembre del 1824, compie circa la riforma della struttura
delle parrocchie romane, già avviata da Pio VII, abrogando nei confronti di
questa chiesa la “cura delle anime”. Tale attività religiosa si esplica
nell’assistenza personale spirituale nelle differenti situazioni della vita
pratica, attraverso la confessione, la cura devozionale, i colloqui e gli aiuti
materiali; l’impegno pastorale è perciò attribuito alle vicine parrocchie dei
Ss. Biagio e Carlo ai Catinari, di S. Maria in Monticelli e di S. Maria in
Campitelli.
Nel 1858 la famiglia Publicola Santacroce
consegna la chiesa a S. Gaetano Errico (1791 – 1860), fondatore nel 1833 della Congregazione
dei Missionari dei Sacri Cuori, cui lo scopo è imperniato sulla diffusione
della devozione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. La Congregazione ancora oggi
officia la chiesa.
Un’unica navata accoglie il visitatore; spazio
definibile come una grande cappella gentilizia, dove sono sepolti membri della
famiglia Santacroce. Spazio che appare quale equilibrato e gradevolissimo
armonico insieme.
Una piccola ma preziosa gemma artistica,
che sembra congiungersi con l’altra, la pala dell’altare maggiore (Natività della Vergine, di Raffaele
Vanni, 1660, circa), è concretata dal monumento funebre, all’inizio del lato
sinistro della navata, eseguito da Giovanni Battista Maini (1690 – 1752) nel
1750, con le quasi “mezze figure” marmoree di Antonio Publicola De Santacroce e di Girolama Nari.
Il Maini è scultore che evidenzia, nei
suoi lavori, eloquente finezza e brillante gusto con cui modella le figure
scolpite. Vivaci combinazioni ritmiche e una raffinata trattazione delle
superfici marmoree, realizzate con delicati tratti di ombre e di luci,
personale trattazione del linguaggio tardo barocco mostrato con vivace e trepidante
plasticismo.
La sua capace abilità creativa ed
esecutiva è testimoniata, ad esempio, nel 1727 quando il principe Camillo
Pamphilj lo incarica di compiere il monumento funebre – in S. Agnese in Agone -
del suo avo Innocenzo X (1644 – 1655), il quale, oltre alla statua del defunto
pontefice, comprende le due statue della Fede e della Giustizia (gruppo
scultorio terminato nel 1730). Inoltre, nel 1728 è tra gli appartenenti all’Accademia
di S. Luca e nel 1730 è indicato quale “primario
scultore di Roma”. Tra i successivi incarichi affidatagli, spicca quello
del 1731, che lo vede membro della commissione, esaminatrice dei progetti, per
il nuovo prospetto principale della basilica di S. Giovanni in Laterano
(esecuzione assegnata ad Alessandro Galilei). Proprio in quella Basilica
innalza la sua somma opera: il monumento funebre del cardinal Neri Corsini
(1733-1734), non tralasciando la preziosa statua bronzea di Clemente XII, posta
nella medesima Cappella Corsini.
Abbandoniamo ora le vicende biografiche
di questo scultore, che, quando “giunge” nella chiesa di S. Maria in
Publicolis, è da molto tempo maestro di nobile fama e ormai prossimo a
terminare il suo percorso di vita. Infatti, nel 1749 inizia a lavorare sulla
“nostra” scultura completandola - tra diversi lavori cui si dedica- nel 1750
(egli morirà, come già in precedenza indicato, nel 1752).
Opera che echeggia, in tono molto minore
e parzialmente, i personaggi defunti che assistono, quali viventi, all’Estasi di S. Teresa, uno dei magnifici
culmini dell’acutissimo ingegno di Gian Lorenzo Bernini, che rifulge dalla
Cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria, completata intorno al 1652. Nella “nostra”
chiesa la scultura del Maini evoca un organismo architettonico, una
risplendente nicchia che espande lo spazio retrostante alle due figure
principali, mentre ai lati della composizione due putti rappresentano il
pungente dolore causato dalla morte, attraverso espressioni quasi contrapposte.
Invero, quello di sinistra emana un sentimento di fonda ma controllata
afflizione; al contrario quello di destra è compenetrato da un irrefrenabile dolore manifestato dal pianto, che sembra invadere la
piegata mano sinistra. Il nero mortale drappo, su cui sono incisi i riferimenti
ai due nobili defunti, è nella parte inferiore sollevato da un teschio, dal
quale proviene tutto il movimento di quel panno che presto ricoprirà le
sembianze di quei defunti, eppur ancora ritratti viventi.
La figura muliebre è presa da uno sguardo
altro rivolto verso l’altare maggiore, una silenziosa preghiera, attestata dal
libro delle ore - comprendente brani tratti dalla Sacra Scrittura, cantici,
inni, preghiere, salmi e così via per la preghiera quotidiana - che saldamente
tiene con la mano destra, fuoriuscente, come l’altra, da un lucido panneggio,
lambito da un soffio leggero.
La figura maschile è ancor più protesa
verso il fulcro del presbiterio, e il gesto della mano sinistra, posta sul
torace dove pulsa il cuore, manifesta la sua vivida fede in Dio, la sua palese
fiducia nella Vergine. Le sue ricche vesti, la nobile parrucca settecentesca ne
sottolinea il blasone.
Dalla penombra sono queste sculture, con
il loro bianco marmo, a catturare lo sguardo del visitatore; l’insieme
scultorio riesce a sostanziare la commemorazione della famiglia Publicola De Santacroce,
quale costante presenza nella vita del luogo di culto. Esempio ritrattistico
proprio della storia dell’arte, dove si evidenzia un classicismo permeato di
tardo barocco, combinata osmosi di diversi caratteri e tendenze entro un
sistema compositivo, inteso quale fondamentale connessione tra le figure e
l’ambiente circostante, ponendo in rilievo il pieno significato di quanto
l’opera allude.