Tra
il nuovo allestimento di opere settecentesche, della Galleria Nazionale di Arte
Antica in Palazzo Barberini, è conservato un pregevole cammeo pittorico, il
ritratto di Giovane Donna quale Baccante,
eseguito da Angelica Kauffmann (Anna Maria Angelica Caterina, 1741-1807),
pittrice svizzera (di origine austriaca) ma italiana riguardo al suo percorso
artistico, come attesta il suo primo Autoritratto
realizzato nel 1753 a Morbegno (Sondrio), ove dimora la sua famiglia prima di
trasferirsi a Como. La sua iniziale formazione dunque si stende nell’alveo
plastico lombardo, tramite la vigile e premurosa guida del padre, Johann
Joseph, pittore di esigua capacità ma attento nel porre in risalto il rapido
evolversi -in acute espressioni- del talento della figlia. La conduce perciò al
denso studio di pitture, eseguite da eccelsi artisti in epoche precedenti,
attraverso stampe, cui egli ne possiede una cospicua raccolta, sospingendola
poi verso il ritratto.
Il
vivace intelletto della giovane Angelica le consente, oltre a padroneggiare
alcune lingue, il profondo apprendimento di vasti temi filosofici e letterari e
il fertile studio della musica. Un cosmo artistico nel quale vivere e palesare
quel moto, che la definirà in seguito eminente pittrice e donna libera, capace
di affrontare diversi sentieri del vivere, con la fervida sapienza insita in un
infrenabile intimo sentire.
Nel
1754 è con la sua famiglia a Milano, mentre nel 1757, dopo la morte della
madre, si trasferisce con il padre a Schwarzenberg (Austria), dove la sua
versatilità artistica –è altresì dotata cantante e ottima musicista- non può
sostare a lungo. Infatti, il premuroso genitore non può che concretarle un
lungo viaggio formativo in Italia, durante il quale la Kauffmann abbraccia definitivamente
la pittura, pur mai abbandonando il versante musicale, almeno vivo in lei come
diletto. Tale aspetto sarà manifestato nel suo Autoritratto tra Musica e Pittura (1791; Museo Puskin, Mosca). Fra
il 1760 e il 1761 è nuovamente a Milano per poi dirigersi a Parma, a Modena, a
Bologna, dove affina il suo verso pittorico dinanzi alle opere dei Carracci,
del Correggio, del Domenichino, del Reni e di altri sommi pittori italiani.
Proprio nella città felsinea la sua abilità interpretativa viene riconosciuta
con l’ammissione, quale “accademico d’onore”, alla già rilevante Accademia
Clementina (inaugurata nel 1710), composta da pittori, scultori, architetti,
incisori, molti dei quali divenuti celebri. Il prestigio dell’acquisito titolo
accademico lo palesano, tra gli altri, i risuonati nomi di: Anton Raphael Mengs
(1752), Pompeo Girolamo Batoni (1763), Giandomenico Tiepolo (Giovanni Domenico:
1780). Successivamente a Firenze copia alcuni magnifici dipinti, compresi nelle
ricchissime collezioni già medicee, conseguendo il diploma conferitole dalla
notevole Accademia del Disegno, fondata nel 1563, da cui raggi luminosissimi di
una superba grandezza declamano le personalità (in ordine sparso) di
Michelangelo, del Vasari, di Tiziano, del Tintoretto, del Giambologna, di
Cellini, del Bronzino, di Artemisia Gentileschi e così via. Ancora però non
cessa di apprendere quei linguaggi, plasmandoli in sé e trasfondendoli, con
originalità, nei suoi lavori. Si reca a Napoli -1764, circa; parentesi del suo
primo soggiorno romano- nella Reggia di Capodimonte, quasi completata, in cui
inizia a essere posta la Collezione Farnese (all’epoca visitabile soltanto da
un pubblico molto selezionato), luogo che avvince la giovane artista dinanzi alle
mirabili antichità, ai cartoni di Michelangelo e di Raffaello, alle pitture, ad
esempio, di Andrea del Sarto, di Giulio Romano, di Giovanni Bellini, di Sandro
Botticelli, del Parmigianino.
A
Roma tuttavia la sua assimilazione pittorica si amplia, inaugurandone taluni
ragguardevoli tratti della poetica figurativa, attingendo anche al linguaggio
di Mengs e di Batoni, mentre frequenta Giovanni Battista Piranesi. Attratta
“dall’antico”, coinvolgente una colta platea, instaura un decisivo rapporto con
Johann Joachim Winckelmann, il teorico del neoclassicismo, dal quale deriva un
imponente effetto sull’arte e sul gusto di quella stagione. Egli enuncia un
criterio che possiede natura di metodo, imperniando la “teoria dell’arte” su
dei fondamenti, tali da costituire un sistema che, prescindendo da quel
peculiare sentire “d’epoca”, edifica, in gran parte, la base della moderna
storia dell’arte. Winckelmann, che della “nostra” Angelica ne esclama la
bellezza e la virtuosità canora, diviene il tramite per introdurla alle
collezioni del cardinale Alessandro Albani, nipote di papa Clemente XI,
formidabile mecenate, bibliofilo, collezionista di fulgenti memorie antiche e
cultore del “bello”.
La
villa di tale porporato, giustappunto, esalta queste sue caratteristiche e,
riguardo alla pittura, proprio Anton Raphael Mengs vi imprime l’insorgente temperie neoclassica,
affrescando il salone principale con il tema del Parnaso (1761), lucente trasposizione dei concetti dello stesso
Winckelmann, mediata però con quella corrente classicistica così vivida nel
precedente XVII secolo, in cui la rappresentazione del “naturale” snuda
sostanza di nobile e quieta beltà sublime, di articolati –armonici- cromatici
contrasti sfuggenti, di cangiante grazia in un’impaginazione spaziale ammantata
di colorate incidenze. Questi elementi sono riletti dal suo estro che ne
disegna le opere, componendo l’altro cardine del neoclassicismo, volto, tra
molteplici influenze, verso la fonte espressiva di Raffaello (autore del Parnaso, dipinto nel 1511 nella Stanza
della Signatura in Vaticano). Di questo pittore tedesco si deve almeno citare
un altro suo vertice, la Gloria di S.
Eusebio (1757), troneggiante la volta della navata centrale della chiesa
titolata, in Roma, a questo Santo.
Tale
nitore non può che incidersi nell’animo di vibrante sensibilità della Kauffmann,
la quale da una visuale, così intessuta di echi, si spinge nella forma
definente la sua creatività, divenendo negli spazi dell’arte protagonista della
nascente temperie artistica e culturale nell’ambiente romano e successivamente
in altri lidi. Invero, la sua penetrante eleganza si appalesa nella
ritrattistica, come attesta il brillante Ritratto
di Winckelmann (1764; Kunsthaus, Zurigo), ove si evidenzia un originale
richiamo al Batoni.
Il
Batoni, per l’appunto, che traduce il classicismo non da concetti teorici, bensì
interpretando quanto, magistralmente, raffigurato dai Carracci sino a concepire
una profonda rappresentazione “ermeneutica” della natura, trasmutata in”
sentimento classico”, quindi visione incorrotta eppur intensamente pulsante
giacché posta, da tale sensibilità, in relazione logica (valore di verità) con
la pittura cinquecentesca. Egli riprende, con carattere innovativo, diversi
modelli culturali, in armoniosa sintesi tra il mondo naturale –appartenente
all’esperienza- e la tradizione classica. Insigne ritrattista, il Batoni dà
forma a un’inedita esposizione del personaggio dipinto, effigiandolo in un
ambiente di plasmata classicità, cogliendo un riguardevole successo presso la
ricca committenza inglese, molto presente in Roma nello spirito del Grand Tour, il viaggio verso le città
europee culturalmente più attraenti.
Come
illustrato nel mio post “Il Grand
Tour a Roma di Felix Mendelssohn-Bartholdy” (20 giugno 2016; attualmente
settimo scritto tra i più letti) esso è itinerario stimato come irrinunciabile esperienza,
del percorso di maturazione intellettuale dei giovani, sia appartenenti a
famiglie estremamente colte, sia dediti all’esercizio dell’arte. Già praticato,
nel corso del XVII secolo, dai rampolli di nobile schiatta britannica, si
dilata nel XVIII secolo per il favore decretato da altri paesi dell’Europa,
godendo di enorme credito e seguito sin quasi alla fine del successivo XIX
secolo, ampliandosi il pubblico dei “frequentatori” non limitato quindi ai soli
giovani. In breve tempo, tra le mete da raggiungere, s’impone ovviamente
l’Italia in cui giganteggia Roma, che dispiega ai visitatori i suoi emozionanti
e monumentali resti archeologici, le sue pregiatissime collezioni di pittura,
di scultura antica e di epoche successive. Ambiente pertanto fervido, mosaico
di artisti e di committenti italiani e stranieri, committenza che cospicuamente
espande perciò l’attività delle arti.
La
Kauffmann elabora quindi, con personalità, ciò che si annuncia in chiave
figurativa e frequentando i viaggiatori inglesi –alcuni dei quali saranno i
suoi maggiori “richiedenti” -, numerosi nel Grand
Tour, ne realizza i ritratti, su cui campeggia quello di David Garrick, noto attore e direttore
di teatro, rinnovatore della scena britannica del XVIII secolo. Eccellente
dipinto (1764; Burghley House, Stamford), che ritrae il personaggio nell’atto
di voltarsi, sulla sedia presentata con la spalliera verso l’osservatore. Il
quadro viene esposto a Londra nella mostra voluta, nel medesimo 1764, dalla Free Society of Artistis, destandone
l’ammirazione sia degli artisti e sia dei visitatori, aprendo all’autrice la
celebrità, in Inghilterra, prima ancora del suo arrivo nella città londinese.
Benché
stia sorgendo evidente la sua luce pittorica -anche per la vicinanza del padre-
lei non cede al compiacimento dell’incipiente fragoroso successo che
la segue: il suo moto creativo esige di più. Ancora studia gli “antichi” e
tuttora indaga i lavori dei suoi contemporanei, intessendo maggiormente fertili
rapporti artistici, sociali, personali. Abilissima ormai nella copia e adesso
nota per la sua vena ritrattistica, la Kauffmann si volge verso la pittura
incentrata su soggetti storici, determinazione insolita esplicitata da una
pittrice, che ne rivela il fecondo e libero temperamento. Frequentatrice di elevate
sorgenti letterarie, raffinata conoscitrice di antichi versi sculturali,
arricchisce il suo estro con disegni di nudo (traendo modelli da quelli
riservatole dal Batoni); oltre a ciò, perfeziona l’abilità prospettica, forse
grazie al Piranesi. Il suo estroso spirito, ora interamente pronto ad
affrontare tematiche differenti, snoda il compimento anche di opere di tipo
mitologico, in cui all’inizio si notano alcuni esitanti tratti, che celermente
svaniranno. La sua abilità afferma una personale fusione di elementi derivati
dal classicismo seicentesco, sostanziati da una struttura compositiva elegante
e rigorosa, congiunta a un elevato uso del colore, impregnato di complessa
articolazione, che mai abbandonerà. La sua valenza artistica è talmente
riconosciuta da essere accolta, il 5 maggio 1765, fra gli accademici di merito
dell’Accademia di S. Luca.
Dopo
la prima esperienza romana, giunge a Bologna e poi a Venezia, dove conosce
l’ambasciatore inglese John Murray cui la consorte, lady Wentworth, ammirandone i lavori, la invita a seguirla a Londra,
che raggiungerà nel 1766 –successivamente a un breve soggiorno a Parigi, la sua
prima esperienza di vita e di arte, priva della figura paterna- rimanendovi
sino al 1781.
La
sua pittura dissigilla, secondo quanto finora descritto, un progressivo
sviluppo, stringendo un rapporto artistico, poi amoroso, con Joshua Reynolds,
tra i più acclamati pittori inglesi del XVIII secolo. Magistrale ritrattista,
capace di trasformare il ritratto -considerato sino allora mera aderenza
all’immagine del raffigurato- in un’elaborata visione ardita, nella quale le
figure sono rappresentate quali soggetti mitologici, a volte fantastici, ideati
eroicamente, drammaticamente, combinando linguaggi diversi presi, tramite una rielaborazione
di caratteri, dalla scuola veneziana e bolognese, da Rubens, dall’ultimo Rembrandt.
Artista di sagace e innovativa ingegnosità, che gli consentono di far proprie
sostanziose “qualità sociali”, grazie all’ampia platea cui questa consonanza
plastica molto gratifica, tale da renderlo caro all’aristocrazia, ai colti
nuovi ricchi, agli intellettuali.
Angelica
Kauffmann si rivela, anche in questa sfera, compartecipe del relativo complesso
clima. Donna libera nell’animo, sulla quale si posa il romanzare sulla sua
esistenza, su ciò che deriva dal suo operato artistico, sulla relativa ottima
considerazione, tanto da abbigliarla quale personaggio in vista negli ambienti
riservati, solitamente, agli uomini, o dove le donne hanno aspetto di
orpellatura. Miseri pettegolezzi però si aggiungono a miserrime, pungenti voci,
circa le sue relazioni amorose. Il padre, probabilmente anche per questi
motivi, sopraggiunge a Londra durante il novembre del 1767.
La
cifra stilistica della pittrice è irrefrenabile; essa è brillante faconda
sponda, dove le onde dei contatti del suo particolare spirito sono colti
dall’incessante apprendimento, che non decade in un’appropriazione supina,
bensì stende la sua tavolozza in un’originale poetica, iridescente nel continuo
divenire. La sua attenzione per i temi storici uniti a versanti allegorici e
letterari, individua molti elementi comuni con l’idea di pittura, diffusa nel
circuito inglese dal Reynolds, a sua volta sostenitore del balenio artistico
della Kauffmann, cui i ritratti presentano un evidente espressione figurale,
spesso declinata con riflessi “dell’antico”. Vero e proprio culmine di tale sua
nobile e quieta dimensione è appalesato dal Ritratto
di Joshua Reynolds (1767; Saltram House, Plymouth), che contiene gli
enunciati segni distintivi, così impressi nella rilassata posa del pittore e
nel suo sguardo vivace, attorniati da un alone di pregnante intimità, definita
pur nel disegno del tavolo, su cui insistono libri di autori inglesi, accanto
ai quali si staglia una protome di Michelangelo.
Nel
1768 è tra i membri fondatori della Royal
Academy, unica donna insieme a Mary Moser, altra pittrice britannica, nota,
in primo luogo, per le raffigurazioni floreali.
L’appartenenza
al sesso femminile determina –ahimè- l’esclusione da gran parte dei principali
eventi e iniziative della stessa Academy;
inoltre, la “nostra Angelica” deve sostenere l’urto dei mediocri preconcetti -esposti
da qualche suo “collega” -, secondo i quali l’universo femminile sarebbe incapace
di assurgere alle più alte vette artistiche. La sua fama dunque solleva aspri contrasti,
poiché il dominio degli uomini nel mondo dell’arte (e non solo in quello)
l’avverte quale sorta di “innaturale” ingerenza; a ciò si aggiungono alcune
impreviste difficoltà finanziarie, nonché un rovinoso matrimonio. Nulla può
fermare la sua ispirata lucentezza creativa; il suo talento dischiude il
portale della casa reale inglese, quelli delle dimore nobiliari e delle
famiglie facoltose, derivandone numerose commissioni, riuscendo a imporsi con il
favore d’illuminati mecenati. Continua anche la serie di Autoritratti; sicuramente riuscito appare quello compiuto in veste
di Suonatrice di chitarra (1769,
circa; Saltram House, Plymouth), ove padroneggiando delicatamente una chitarra
barocca, mostra il differente versante del vasto suo respiro artistico, comprendente
quello musicale, alludendo forse che tal effigie è, tradizionalmente, più
consonante al suo essere donna ma il quadro, in quanto tale, ne esplicita la
reale e felice consistenza pittorica, che sfugge a predefinite “parti” accettate
in forza a costumi imposti.
Pur
se acclamata da una committenza sempre più ampia, avverte intorno a sé la
percepibile peculiare attenzione –trasmutabile frequentemente in gravoso
negativo giudizio “morale” - che sembra seguirla in ogni suo passo, dopo ogni
pronunciato atto.
La
sua celebrità oltrepassa la normale misura –per come sembra indifferente a
quella maligna atmosfera-, modellando un anello in cui si attorcigliano la
febbrile attività e le inconsumabili richieste di quadri, che agli occhi
dell’ambasciatore danese, in Londra, appare sconsiderato comportamento,
esemplificato con la sua esclamazione: “Anna
la pazza!”. Successo confermato dalla ragguardevole diffusione di stampe,
tratte dai suoi dipinti, dagli stretti rapporti intrattenuti dalla pittrice con
i principali incisori e stampatori inglesi; popolarità ribadita dall’utilizzo
delle sue composizioni nelle arti applicate, quali la decorazione di mobili e
di porcellane.
Sua
la cultura, il sapere dosato nella grazia, il rimando all’erudizione palesato,
ad esempio, nel dipinto di Teresa Parker
(1773; collezione privata), dono di un’amicizia, dove la reciprocità di questo
sentimento è raffigurato secondo l’Iconologia
di Cesare Ripa (testo del 1593 che influenza enormemente le arti figurative
almeno sino all’epoca della Kauffmann). Sono le tre Grazie –tratteggiate dalla
pittrice sul piedistallo di una protome femminile da modello “all’antica” - che
lo scritto illustra come “tre fanciullette,
coperte di sottilissimo velo, sotto il quale appaiono nude. Così le figurarono
gli antichi Greci, perché le Grazie tanto sono più belle, e si stimano, quanto
più sono spogliate d’interessi, i quali sminuiscono in gran parte in esse la
decenza e la purità; però gli antichi figuravano in esse l’amicizia vera, come
si vede al suo luogo”.
Il
pulsante spirito interiore, permeante il suo percorso, appare estraneo a una
staticità voluta dalla considerevole “produzione” di ritratti, facilmente
venduti e dunque fonte di sicuro guadagno: deve ulteriormente cimentarsi nella
pittura storica, mitologica, con dipinti di grandi dimensioni, affermando in
tal modo la sua ispirazione capace e valente; sfida voluta, cercata con queste
opere vendute con difficoltà, rispetto alla ritrattistica, ma esse ne
testimoniano la luminosa caparbia e la risoluta indole.
Nel
1781, anno particolare per la Nostra, sposa (in seconde nozze) il pittore
veneziano Antonio Zucchi, membro della Royal
Academy; sarà devoto coniuge sino al decesso, che avverrà nel 1795. Il
richiamo dell’Italia penetra in lei, ora che possiede una concreta notorietà e
il suo stile dissoda straordinaria versatilità.
Lasciati
i lidi inglesi, dopo una breve permanenza nelle Fiandre, la nuova coppia sosta
a Venezia, Ferrara, Loreto, mentre il genitore muore nel 1782, anno dell’arrivo
a Roma. Acquistata una dimora, durante la relativa ristrutturazione, i due
coniugi si trasferiscono a Napoli. La rinomanza della Kauffmann non può che
essere accolta, con entusiasmo, dalla dinamicità culturale della città
partenopea; la stessa regina, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, moglie di Ferdinando
IV Borbone, re di Napoli (ma Ferdinando III come re di Sicilia), persevera nel
volerla insignire del preminente titolo di pittrice di corte, dalla Nostra
invece rifiutato con decisione (tornerà brevemente in quella città soltanto nel
1785); invero, il Ritratto della famiglia
reale (1783; Museo nazionale di Capodimonte) sarà terminato a Roma.
Nella
“Città Eterna” la sua prima giovinezza vi ha conosciuto il genius, il naturale spirito animatore di questo luogo, che dona il
respiro all’arte nella storia sino a personificare una dimensione universale.
Non solo scoperta del fascinoso paesaggio, della sovranità dell’antico e del
classico ma pur svelamento del più intimo moto, affidando l’animo a quegli
spazi, ove si riconosce l’insopprimibile acqua sorgiva dell’elevato sentire,
luogo nel quale avviene ciò che Lucio Anneo Seneca, affermava relativamente a
un sentimento non muto:” Non occorre che
tu sia altrove, ma che tu sia un altro” (da Lettere a Lucilio).
In
Roma la pittrice trova la definitiva patria d’adozione; l’atelier e, soprattutto, il salotto della sua abitazione, diventano
un punto d’incontro primario della vita artistica e intellettuale cittadina; in
tale favorevole contesto si avvia l’intenso rapporto con Johann Wolfgang von Goethe, del quale realizza il Ritratto (1787; Goethe National Museum,
Weimar); per il poeta, scrittore e pensatore la Nostra s’innalzerà come amica
ammantata da ineguagliabile chiarissima e raggiante luce, con la quale
condividere le più intense emozioni.
La
creatività pittorica –tutti i lavori sono eseguiti a Roma- della Kauffmann è
tangibile straordinaria distribuzione
della scena disegnata, palpabile equilibrio tra forma e tema, che continua ad
affascinare la platea albionica; contemporaneamente prodighe commissioni le
provengono, non solo dalle corti italiane ma pure da eminenti corti europee,
pronuncianti i nomi di Giuseppe II, imperatore austriaco, Caterina la Grande di
Russia. Tra il 1780 e il 1796 compone molte opere tra le più pregevoli, sia
ritratti (a autoritratti), sia dipinti –ormai anch’essi stabili nel suo
repertorio- di scene mitologiche, storiche o religiose. Dal periodo
corrispondente alla Seconda Repubblica Romana (9 febbraio-4 luglio 1799) a
quello successivo prosegue l’attività del suo studio, pur se in maniera meno
accesa, anche per la cagionevolezza, del suo stato di salute, sempre più frequente,
motivo di brevi viaggi di riposo. I suoi ultimi lavori, Cupido e Venere (1800; Staatliche Museen, Berlino) e l’Incoronazione della Vergine (1801-1802;
Chiesa parrocchiale di Schwarzenberg), conservano, nella diversità tematica,
eloquente espressione di appassionato quieto incanto ideologico e tuttora
magnifica sicurezza dei tratti.
Quanto sinora scritto introduce al ritratto,
cui il titolo di questo post ne
indica il rapporto con l’insorgenza e il progressivo sprigionamento della cifra
stilistica della Kauffmann; opera tarda aperta alla visione della realtà
percorsa dalla sua arte, quindi dalla sua esistenza, insieme di elementi vari e
dissomiglianti, visuale perciò rilucente e ombrata, sfaccettata e molteplice.
Il dipinto Giovane Donna quale Baccante appartiene dunque alla stagione ultima
della pittrice; esso è firmato e datato 1801. Olio su tela, vi è modellata
dunque una giovane donna, in veste di baccante, cui l’etimo latino la rivela
figura muliebre, celebrante con grida e danze la festa di Bacco, derivata dalla
menade, che l’etimo greco percepisce come donna forsennata, furente, dominata da
un’incontrollata passione. Tutto si riconduce alle invasate devote al dio
Dioniso-Bacco, allusione all’affrancamento della vita dalle strette funi della
quotidianità, della convenzionalità, che soltanto il culto estatico del dio
provoca, venerandolo totalmente, rapite con il canto e con la danza, incoronate
con ghirlande. Figure ammantate di spontanea bellezza, sono immortalate in una delle
più frequentate opere di Euripide, Le
Baccanti (405 a.C., circa). Personaggi mitologici viventi nell’arte
letteraria e figurativa, traslati e conseguentemente figure metaforiche del
singolare stato di abbandono, insito nel culto dionisiaco. Storicamente
tuttavia alcuni gruppi femminili praticavano in inverno avanzato -in modo
particolare nella Grecia centrale- un
rituale, sorta di “danza della montagna” celebrante il dio.
Dioniso, divinità della vite, della vegetazione,
del possesso religioso, che gli esseri umani possono “sentire” attraverso
l’ebrezza o per mezzo dell’estasi spirituale, eccitazione esposta per l’appunto
in estasi, dal greco ekstasis, vale a
dire “essere o stare fuori da sé stessi, essere in un altrove”, ispirazione
divina, nella quale la personalità soggettiva umana svanisce, pur se per
limitato tempo, mutandosi in essenza della divinità.
E' possibile, per quanto detto, elaborare una colleganza, magari ardita, con
uno stato –secondo alcuni elementi- similare: la follia quale “vagare fuori” dunque stravaganza. Se il grigiore dell’ignavo si manifesta nel
suo essere arido, frivolo e privo di reale passione, il suo avversario,
l’eccesso (sostantivo di eccedere, dal latino “andare fuori”) e quindi questa
particolare follia -secondo questa visione- diviene il mezzo unico per
scardinare il confine –recinzione dove vi si alberga costantemente- in cui,
l’uomo, è collocato dal caso, dall’evento, da ciò che fonda l’ordinario
orizzonte del vivere, nel quale esso cade. Questa distinta follia non possiede
attinenza con la dissennatezza, al contrario muove lo sforzo estremo che,
l’uomo medesimo, compie per non capitolare e seguitare a vivere realmente,
contrapponendosi ai colpi della “sorte” –intesa quale vicenda dettata da una
“potenza” astratta- che in tal guisa è fortemente avversata.
La giovane dipinta dalla Kauffmann
sottintende questa complessa antitesi, in una posa di delicata lieve
malinconia, quasi una pausa introspettiva successiva all’estasi, uno sguardo
che sospeso indaga un luogo altro, inducendo l’osservatore a “vedere”, nel
significato dell’antica radice indoeuropea di vedere con gli occhi della mente
–quindi consapevolmente- divenendo “io so”, quindi reale conoscenza, sapienza.
Stato di assoluta difformità rispetto al “guardare”, scaturito dal latino
medievale a sua volta derivato dal franco “stare in guardia”, perciò chiudersi
in difesa di sé stessi, per
una possibile minaccia esterna. Il candido
volto dalle rosee gote e l’inghirlandata corona risuonano l’Autoritratto (1786) dello Staatliche
Museen di Berlino, dove l’idealità dell’incorruttibile leggiadria viene esposta
trafiggendo la piena del tempo. L’aggraziato capo, dalle morbide lunghe chiome,
della Baccante è cinto da una corona
di foglie di vite, richiamo ai grappoli d’uva dai quali il vino acquista la
proprietà di bevanda spirituale dionisiaca-brachica. Le mani tengono
delicatamente un tamburello, rimando alla danza osannate la divinità. Alle sue
spalle è piantata una quercia, simbolo di durabilità, d’immortalità in virtù
della robustezza del legno; nell’antica Grecia con il vocabolo drys, quercia, s’identificavano le
Driadi, ninfe proprio delle querce, sotto cui vivevano; divinità minori di
aleggiante beltà, caratteristica armoniosamente esposta nell’incarnato e
nell’espressione tutta del personaggio femminile. Per il legnoso tronco sale
una spirale di edera, abbraccio dal significato d’indissolubilità di questa
pianta sempreverde, perciò ribadita interpretazione d’immortalità, eloquente
efficacia di vitale forza svelata, felice legame dell’affetto –intenso moto
dell’animo- infinito, benefico insieme di sentimenti liberati, emozioni e
passioni intramontabili.
L’ambientazione enuncia, seppur
delicatamente, la possanza del sentimento, quasi un alternarsi con la quieta
immagine, che invece con soavità pronuncia, con vivezza dal tono sapienziale,
un’ode sovrana. La nuda spalla, le vellutate membra riflettono una carezzevole
luce che gioca con il tenue colore rosa del manto, il quale delicatamente corre
lungo il giovane corpo nitido, biancore plasmato con alcuni rosati tratti della
levigata pelle. Purezza d’animo eppure allusiva all’ardore che impregna l’anima
aperta, quest'ultima sottolineata dalla bianchezza incisa sulla veste tenue; infine, un
bracciale –monile e null’altro- adorna il braccio confermando la raffinatezza
della figura. Il quadro pertanto palesa tinte chiare, stese con freschezza e
genuinità di tocco, in una compostezza di segno classico.
L’opera può essere interpretata come
contemplazione dell’autrice, una rappresentazione di un ideale che accarezza il
mondo antico, Roma, godendo sino alle profondità dell’animo la bellezza, vivida
non stantia, non appartenente a una sfuggita utopia bensì aderente a una veduta
possibile, eterna.