Antonio
Aquili (1435/1440-1508), detto Antoniazzo Romano, è uno dei protagonisti che
agiscono, nell’ambiente artistico di Roma, durante la seconda metà del XV
secolo giungendo sino alle soglie del XVI secolo, quando un nuovo linguaggio
esprime il verso pittorico. Egli emerge da quella sorta di anonimato che
comprime la pittura della “Città Eterna”, come dimostra la breve citazione
(unico pittore romano di questo periodo) del Vasari contenuta nella sua
raccolta “Vite de’ più eccellenti Pittori, Scultori, e Architettori italiani da Cimabue
insino a’ tempi nostri” (1550), in cui l’Aquili è definito pittore “dei migliori che fussero allora in Roma”.
Il
nome Antonius presente nei dipinti
giovanili è presto mutato dal soprannome, esso stesso in forma latina, Antonatius (corrispondente ad Antonaccio, Antonatio, Antonazo) Romanus –che sostituisce l’appellativo de Roma quale indicazione del luogo
natio- con cui firma le sue opere.
La
cornice, il luogo eletto nel quale l'attività di Antoniazzo si compie è
“l’Urbe”; infatti, non si hanno notizie di lavori eseguiti fuori dal perimetro
della città o dai suoi dintorni. Molto probabilmente i dipinti su tavola,
voluti da committenti laziali, sono eseguiti nella bottega romana e da qui
inviati alle residenze degli “ordinanti”. Avvalendosi di un copioso numero di
collaboratori, di allievi e di lavoranti, la sua versatilità si compie in
diverse “sfere” oltre a quella della pittura (su tavola ma anche murale);
invero, fornisce costante prova d’inconfutabile capacità di creare originali e
raffinati allestimenti effimeri per feste e per cerimonie (ad esempio gli
apparati cerimoniali per l’elezione di Paolo II, 1464 e di Innocenzo VIII,
1484, in tale occasione insieme al Perugino), creando altresì pregevoli
scenografie teatrali. Inoltre, questo suo eclettismo lo guida verso attività
artigianali –non costituendo, nel seno della Storia dell’Arte, un’unicità
rispetto ad altri “maestri”-, quali l’esecuzione e il restauro di manufatti
liturgici, le dorature e le coloriture di monumenti funerari. A questo
proposito si rammentano i lavori, aventi tale carattere, rappresentati dalla
rifinitura delle porte e delle finestre, compiuti nel corso della decorazione
della Biblioteca Segreta (privata) e della Biblioteca Pontificia (1480-1481)
che Sisto IV fa erigere, completando le aule edificate, intorno al 1450, da
Niccolò V. Questi interventi sono un’appendice dell’ornamentazione di quei
luoghi, che desta l’ammirato commento, “con
somma maestria a chiaroscuro dipinti”, dell’accademico Giovanni Pietro
Chatard, contenuto nel secondo volume della sua “Nuova descrizione del Vaticano o sia della sacrosanta Basilica di S.
Pietro” (1766), ornamento degli ambienti realizzato, grazie a una struttura
di tipo societario, con Melozzo da Forlì (1438-1494), quest’ultimo autore del
grandioso affresco “Sisto IV nomina il
Platina prefetto della Biblioteca Vaticana” (oggi conservato presso la
Pinacoteca Vaticana).
Il
suo programma iconografico aperto alle novità ne accoglie i modi, elaborandone,
però, autonomamente i linguaggi (nella sua maturità artistica trovano maggiore
spazio magnifici paesaggi ed elementi architettonici anche vigorosi), pur
mantenendo il forte legame con la magnifica tradizione figurativa medievale di
Roma, determinando un consistente seguito di committenti definibili quasi
conservatori; Antoniazzo, quindi, rappresenta una religiosità pressoché
estranea a taluni fermenti dell’Umanesimo, sebbene ricerchi un vincolante
accostamento tra la cultura classica e il pensiero cristiano. Egli lavora per
conventi, comunità religiose, confraternite, pie istituzioni, alti prelati,
nobili e famiglie illustri; legato, per l’appunto, al mondo religioso nel 1470
è camerlengo della Compagnia del Gonfalone (una carica che ne individua
l’incarico quale “economo”) in cui il suo rapporto non è ristretto alla
funzione amministrativa, al contrario si sviluppa nella “cura professionale”
con la messa in scena, come già è stato illustrato, d'impianti, di “paramenti”,
che egli appositamente “modella” per le ricorrenze, per le processioni e per i
riti ad essi congiunti, testimoniando altresì una spessa devozione, connotante
la sua vita.
Tra
i dipinti che sono a noi giunti, del pittore romano, quelli conservati presso
la Basilica di S. Paolo fuori le Mura sono raramente "frequentate",
seppur racchiudano anch’essi i pregevoli elementi del suo linguaggio. Tali
lavori si collocano durante il periodo nel quale, il relativo complesso
abbaziale, viene arricchito con opere d’arte, in seguito alla ricostruzione del
monastero, avvenuta intorno al 1430 -per volere del riformatore benedettino
Ludovico Barbo-, dopo un lungo spazio temporale con momenti di notevole
incuria.
Da
attribuire ad Antoniazzo l’affresco raffigurante il solo S. Paolo, collocato
nella lunetta sopra l’andito che conduce alla Sala Gregoriana, ove è posta la
colossale statua di Gregorio XVI – di Rinaldo Rinaldi (1793-1873)- prospiciente
l’ingresso della Sacrestia; allo stesso modo il quadro “Madonna con il Bambino e i SS. Benedetto, Paolo, Pietro, Giustina”,
recentemente restaurato, custodito presso la Pinacoteca-Museo della Basilica, è
riconducibile alla mano dello stesso pittore, mentre gli altri colà presenti
sono riferibili a collaboratori della sua bottega.
“Madonna
con il Bambino e i Ss. Benedetto, Paolo, Pietro, Giustina”
Questa
tavola, secondo miei studi, ascrivibile al periodo compreso tra la fine degli
anni ottanta e l’inizio degli anni novanta del XV secolo, mostra, nella
formulazione plastica, alcuni segni iconologici di radicata tradizione
allegorica, su cui soffermarsi.
Il
panneggio della Vergine mostra sia la veste di colore rosso, rimando al concetto
di dinamismo che caratterizza la figurazione del fuoco, sia il manto dalla
tinta azzurra, il quale allude al cielo e quindi all’intensa concentrazione
spirituale che in esso si rappresenta, alla purezza. S. Benedetto da Norcia –la
Basilica è retta dai monaci benedettini- tiene fermamente tra le mani un passo
in latino -a mo’di libro con pagine aperte- di ammonimento, di parenesi, tratto
dalla sua Regula. S. Paolo è
rappresentato con la spada, strumento del suo martirio però anche arma
spirituale come scrive lo stesso Apostolo nella lettera agli Efesini (capitolo
6, versetto 17) “Prendete anche l’elmo della
salvezza e la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio”; la forza della
sua fede, così raffigurata, è descritta in un’altra epistola paolina
(2°Timoteo, capitolo 4, versetto 7):” Ho
combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbato la fede”.
S. Giustina di Padova, eletta patrona –insieme a S. Benedetto- della
Congregazione Benedettina ad ella intitolata (1418, per volere del già citato
Ludovico Barbo), martirizzata nel 304, richiama la gloria della sua violenta
morte con la foglia della palma, stretta nella mano destra, come un pennino,
che sembra indicare il libro tenuto dalla mano sinistra.
Il
dipinto s’inserisce nella tipologia della pala unificata rinascimentale, accolta
da Antoniazzo, che in questa fase abbandona la struttura a trittico –ma non
definitivamente dalla sua bottega- costituita da scomparti divisi, “isolati”, in
precedenza adottata in diverse realizzazioni. Lo spazio è quindi unitario,
comprendente figure senza elementi divisori, risaltando, ai lati della Vergine,
quelle dei due santi protettori benedettini (S. Benedetto a sinistra e S.
Giustina a destra) alle cui spalle, quasi in linea con il piano dominato dalla
Madonna, stanno, rispettivamente, S. Paolo e S. Pietro, colonne della Chiesa le
cui membra (i due santi) ad esse sono unite per mezzo di Maria, assisa su un
trono, privo di dorsale, che non la eleva rispetto agli altri personaggi,
sebbene lo schietto modanato podio ne cadenzi la regalità, frangendo il piano
di calpestio. Il Bambino – nel centro compositivo della tavola- disteso sopra
le gambe della Madre, vi poggia il capo quasi sul ginocchio sinistro e sebbene
nudo una tenue stoffa azzurra ne protegge le terga, ponendo l'accento
sull’amore materno così colto verso quel “frutto” che, dal “seno” della Vergine,
è venuto nel mondo quale luce per l’umanità.
L’opera
esprime una limpidissima tenerezza, un nitore di caratteri i quali, in un
impianto di acuta semplicità, effondono una “sostanza poetica”, una controllata
magnificazione della spiritualità luminosa e intenerita, esponendo una lieve
assonanza di espressioni, pur divergenti, che la maestria di Antoniazzo accorda
fra il pensoso splendore, quasi mesto, della Vergine e la chiara, quasi
ieratica, leggera plasticità dei santi. Il fondo oro emana un senso temporale
sospeso, la disposizione avanzata dei due santi benedettini conferisce, alla
scena, una “perfetta” asimmetria che dona profondità al dipinto, ove i
personaggi, pur illuminati dall’ampio ricadere di pieghe delle vesti, restano
cinti in un'aura arcaica dai caratteri distintivi, poiché la soluzione plastica
è sviluppata con morbidi modi scultorei. La messa in posa delle figure descrive,
dei volumi, una sorta di sintassi, descritta dagli sguardi nonché dalla
posizione delle braccia, delle mani, dei piedi. L’azione pittorica da una
rigida regola sembra accrescere il suo portato, che dalla codificata
religiosità vuole trapassare l’astratto anelito di sacro fino a sostanziare la
santità.