Nel XVIII secolo il tessuto urbanistico
romano conferma il suo costante alternarsi di masse, di brani antichi e di periodi
successivi, inglobati in chiese, in palazzi e in edifici diversi, che esplicano
la forte presenza, secolare, di famiglie nobiliari o la particolare funzione di
rappresentanza dell’amministrazione pontificia. Inoltre, pulsano conventi di
remota origine ove si evidenzia un profondo legame con la quotidianità
cittadina, viuzze irregolari s’intrecciano sino a sboccare in veri “momenti di
sorpresa”, come lo sono le grandi piazze adornate altresì da squillanti fontane
e ancora imbattersi in costruzioni gentilizie su cui si addossano umili dimore,
casupole.
Durante quest’epoca l’attività edilizia,
però, inizia il tentativo di tradurre, in realtà, un’idea di omogeneità urbana,
anche attraverso un “nuovo” tipo di edificio sostanziato dal palazzo di affitto,
il quale benché formato da più piani, destinato a ospitare una nascente
“piccola borghesia”, si presenta con una facciata elegante, che, talvolta,
richiama in scala minore certi elementi architettonici di illustri dimore. I
notevolissimi lavori urbanistici, intrapresi dall’ultimo trentennio del XVI
secolo in poi, sembrano non trovare riscontro nei progetti architettonici, anche
se, ad esempio, la realizzazione del porto di Ripetta (1705), della scalinata
di Piazza di Spagna (1723) e della fontana di Trevi (iniziata nel 1732 da
Nicola Salvi, terminata nel 1762 da Giuseppe Pannini) in qualche modo
asseriscono una sorta di continuità, con quell’immaginoso apparato monumentale
creato precedentemente, divenendo le ultime due edificazioni modelli
d’innovazione – come sappiamo la prima è distrutta per “far posto” agli argini
in muratura del Tevere- di spazi urbani tanto da inserirsi tra gli emblemi indifferibili di Roma.
La consistente costruzione dei palazzi
gentilizi cospicuamente diminuisce, per le generalmente, apparenti, minori
risorse economiche disponibili dalle famiglie aristocratiche e, principalmente,
da quelle imparentate con i pontefici, in conseguenza della abolizione del
“sistema nepotista”, sancita da Innocenzo XII (1691-1700), con la bolla “Romanum decet Pontificem” promulgata nel
1692, con la quale si nega la ripetuta e “regolare” concessione di cariche, di
uffici, di beni di qualsiasi natura della Chiesa a parenti -per lo più
ecclesiastici- del papa, che una pratica secolare ampiamente riconosce loro,
salvo eccezioni, fino a quel momento. Soltanto due notevoli espressioni
architettoniche di “famiglie pontificie” sorgeranno nel corso di questo secolo:
Palazzo Corsini, originato dall’ampliamento e dalla trasformazione monumentale -compiuto
da Ferdinando Fuga (1736-1755) per i familiari di Clemente XII (1730-1740)-, di
un nucleo abitativo principesco del XVI secolo sorto per volontà del cardinale Raffaele
Riario; Palazzo Braschi (1791) progettato da Cosimo Morelli, commissionato da
Pio VI (1775-1799) che lo dona a suo nipote, il duca Luigi Braschi Onesti.
Una nuova atmosfera culturale però si accinge
a prevalere in Roma, da quella prestigiosa collezione di antichità, ospitata a
Villa Albani eretta da Carlo Marchionni (1747-1758, definitivamente completata
nel 1763) per il cardinale Alessandro Albani, nipote di Clemente XI
(1700-1721), pontefice che reintroduce una variante, sebbene moderata, del
nepotismo, soprattutto nei confronti della sua città natia, Urbino. Tale residenza
cardinalizia, dunque, può essere considerata uno degli epicentri da cui si
diffonde un’altra sensibilità antiquaria, marcando il passaggio tra il Rococò e
il Neoclassicismo, attraverso gli studi di Johann Joachim Winckelmann, che vi può
compiere i suoi studi rivolti all’eredità artistica dell’antica Grecia, tramite
le copie romane collezionate dal porporato. Contemporaneamente nasce una nuova
concezione espositiva delle opere d’arte, trasformando ambienti di raccolta di
reperti antichi in musei pubblici, ove tutelare quelle illustri testimonianze “ataviche”,
promovendone le approfondite indagini e i processi cognitivi, filologici. Da
questa nuova idea organizzativa deriva il Museo Pio-Clementino (1771) dal nome
dei suoi fondatori, Clemente XIV (1769-1774) e il già citato Pio VI, i quali
arricchiscono la raccolta di sculture, greche e romane, già esistenti e
conservate in ambienti rinascimentali, che sono perciò modificati e congiunti a
quelli nuovi di stigma neoclassico. In sostanza, inizia quel percorso museale
giunto sino alla nostra epoca, formato da una rappresentativa sequenza di ampie
sale e di imponenti scaloni, quasi un lascito dell’ultima dimostrazione di
Roma, quale centro culturale artistico dell’Europa. Nella “Città Eterna” si
sviluppano pienamente le fantasie architettoniche di Giovanni Battista Piranesi
impresse nelle sue incisioni; egli interpreta l’antico definendosi, per un
certo periodo della sua esistenza, “soltanto un architetto”, eseguendo, in tale
ambito professionale, i lavori di sistemazione della piazza
antistante alla Chiesa di S. Maria del Priorato, notevolissimo esempio di
“microurbanistica” neoclassica, del giardino della Chiesa stessa e il complesso
“abbellimento” della sua facciata e dell’interno (1764-1766), in cui coniuga
temi della classicità e motivi iconografici evocanti alcuni aspetti della
committenza; la navata e gli spazi circostanti esprimono un linguaggio
singolarmente settecentesco, dai tratti neoclassici però uniti a una netta rilettura
borrominiana. Questo tipo di derivazione tardo barocca si presenta altresì nelle
facciate di Palazzo Doria Pamphilj, vale a dire sia in quella che prospetta su
Via del Corso, realizzata da Gabriele Valvassori (1731-1734), sia nell’ala ad
appartamenti eretta, su Via del Plebiscito, da Paolo Ameli (1739-1744), ambedue
realizzate durante l’opera di ingrandimento dell’edificio.
La maestria architettonica, che adotta una
coesione armoniosamente concepita di superfici curve, la quale rimanda a un
gusto, attenuato, borrominiano, definisce un “valore culturale”, detto borromismo, caratterizzante il Rococò
romano e perciò presente in molti lavori della prima metà del Settecento, con
alcune isolate successive -come abbiamo osservato- propaggini.
Il Rococò si manifesta termine di origine
francese, rocaille (roccia), adottato
alla fine del XVII secolo in Francia e successivamente in Europa, per indicare
una decorazione ornamentale bizzarra, che riproduce grotte al cui interno si
inseriscono stalattiti, conchiglie, rabeschi e dunque motivi geometrici o
vegetali molto stilizzati, grotteschi e così via; nei primi anni del XVIII
secolo, questa tipologia di ornamentazione, è utilizzata per gli oggetti di
arredamento. Acquisita fama quale moda, si imputa -perciò con senso negativo-
questo vocabolo alla fase successiva al Barocco, acquistando solamente sullo
scorcio del XIX secolo il significato di stile architettonico, di profondo
carattere decorativo, contraddistinto da un verso compositivo espresso con
abile leggerezza e con luminosità delicata, “galante”, raffinata, che rifugge
dall’imponenza barocca rappresentata da quella “prosa” plastica, descritta in
un passo del mio post “Il manifestarsi del Barocco” (5 maggio 2015), che di seguito
riprendo. Esso - il Barocco, per l'appunto- rappresenta un prodigioso insieme di forme levitanti,
irregolari e complesse, di chiare linee sinuose e schiuse, di grandiosità in
movimento, di artifici luministici, di scenografie di estrema e stupefacente
ingegnosità, di ambientazioni sfarzose, di varietà e di ricchezza dei
materiali, di maestosi e concitati contrasti chiaroscurali, di pittoriche
vibrazioni esaltanti il pathos dei
personaggi. Il Rococò, nonostante l’aspetto formale ne sottolinei l’interdipendenza
tra i due “movimenti”, per la sua quintessenza attesta un piano di originali fragili
variazioni decorative inerenti al primo, sul modulo sinuoso della rocaille, creando opere pregne di raffinatezza, di giocondità, comparendo
tra le più gradevoli eleganze formali artistiche.
In questo ampio quadro evolutivo del gusto
estetico, l’innalzamento di grandi chiese si dirada nel tempo, costituendo quasi
delle singolarità il voler ricostruire, ad esempio, la Basilica minore dei SS.
XII Apostoli e quella di S. Apollinare alle Terme Neroniane Alessandrine. Al
contrario si amplia maggiormente, negli spazi perimetrali di Roma, la presenza
di piccole chiese appartenenti sia a ordini religiosi, nati in seguito alla vasta
azione determinata, a suo tempo, dalla Controriforma, sia a confraternite.
Inoltre, si pone in atto una sorta di “modernizzazione” dei luoghi di culto già
esistenti, come la facciata principale della Basilica di S. Maria Maggiore
(1743-1750) eseguita dal Fuga, che su un registro classicista inserisce una ornamentazione
barocca, ricca di “effetti luministici” ben visibili nel contrappunto tra i
quattro timpani, nell’evocazione del moto ondulato, che evidenzia la convessità
del timpano centrale ricurvo e la concavità degli ornamenti laterali. Questo specifico
fervore edilizio è testimoniato dai prospetti, citandone alcuni, di S. Paolo
alla Regola, detto anche S. Paolino per le sue ridotte dimensioni, disegnato da
Giacomo Cioli (sua la parte inferiore) e completato da Giuseppe Sardi (1721),
dei SS. Celso e Giuliano, Chiesa interamente ricostruita dal 1733 al 1740 su
progetto di Carlo De Dominicis, come quella dei SS. Marcellino e Pietro al
Laterano dalla facciata di Girolamo Theodoli (1751) prossima a un nitore
neoclassico ma caratterizzata dalla peculiare cupola a gradoni borrominiana. Il
sistematico esame di tali opere appalesa la reinterpretazione architettonica,
intimamente radicata nel Rococò romano, secondo la variante del borromismo, concepito in modo
disomogeneo.
Pone in scena, la Chiesa di S. Maria
Maddalena in Campo Marzio, la massima espressione del repertorio rocaille nella “Città Eterna”,
segnatamente riguardo al prospetto e alla sacrestia. Essa rappresenta, dalle
notizie storiche a noi giunte, il più remoto luogo di culto dedicato a questa
Santa. Invero, già agli inizi del XIV secolo Ella è titolare di una
frequentatissima cappella, parte di un ospizio (dove finiscono la loro vita la
maggior parte dei miseri) della fratèrnita
della Beata Maria Maddalena dei Battuti secondo lo statuto dei Disciplinati,
che praticano la penitenza attraverso l’autoflagellazione e l’invocazione del
perdono divino, per tutta la comunità, mediante l’intercessione di quella,
umile, testimone del trionfo di Gesù Cristo sulla morte. Personaggio dai
contorni multiformi, in base alle voci tradizionali, la “Maddalena” vive per
trenta anni in un desolato antro come penitente, in costante preghiera fra
lacrime e lunghi digiuni.
In seguito quel sodalizio religioso si
trasforma nella Confraternita dei Raccomandati (alla Vergine) del Gonfalone
(stendardo vittorioso), che interviene sulla riedificazione dell’edificio, al
quale si dà forma di reale Chiesa, ponendola al centro della primitiva piccola
piazza (seconda metà XV secolo); essa viene disegnata con sviluppo rettangolare
e unica navata, subendo in seguito, come si ipotizza, alcune modifiche (metà
XVI secolo). Nel 1586 è concessa a S. Camillo de Lellis, il quale vi stabilisce
la Casa Madre dell’Ordine dei Ministri degli Infermi, che ha istituito nel
1582. Ordinato sacerdote nel 1584, in questo nuovo ambiente accordadogli può
celebrare la Messa, organizzare al meglio la sua Compagnia trasfondendole
maggiore vigore, poiché chiamata ad assistere e servire i malati pur a rischio
della propria vita. La sua fama si espande sino a essere quasi venerato in vita
e grande risonanza suscita la sua morte, avvenuta il 14 luglio 1614; sarà
proclamato santo nel 1746.
Nel
1628 Urbano VIII (1623-1644), a seguito della richiesta dei Padri Camilliani
(come in epoca moderna sono chiamati), autorizza loro a “far piazza davanti alla lor Chiesa et ampliare essa Chiesa e loro
habitazione”. In una raccolta di documenti formulati tra la fine del XVII e
gli inizi del XVIII secolo, si legge: ”detta
piazza e fatta che fosse immune da ogni impedimento di fabriche, ringhiere,
scalini, colonne, da venditori di robbe, immondezze et altro … si mantenghi
perpetuamente vacua, libera e netta per maggiore ornamento della Città …”.
Questo spazio cittadino, in cui i Ministri degli Infermi sono proprietari di un
palazzo prospiciente al loro luogo cultuale, inizia a essere ampliato dal 1629,
premessa edilizia al proposito di ingrandire la Chiesa, adeguandola
all’importanza assunta dall’Ordine religioso. I lavori, condotti da Giacomo
Mola –oggi difficilmente identificabili- iniziano intorno al 1640 e vengono
sospesi nel 1642, mentre riguardo al Convento si interrompono nel 1649. Il
progetto, della “nuova fabbrica”, è ripreso nel 1659 per volontà di Alessandro
VII (1655-1667) e affidato sino al 1661 a Giovan Francesco Grimaldi ma anche nel
suo caso, attualmente, è impossibile attribuire alcuna parte della costruzione.
Bisogna aspettare il 1673 per aver certezza documentata della fattiva
trasformazione della Chiesa, quando l’incarico di proseguire quegli abbozzi di
rifacimento viene assegnato a Carlo Fontana, già collaboratore del Bernini.
Egli crea la cupola, coperta da un tetto a falde -costituito da
elementi piani inclinati- sormontato dalla lanterna, determina la forma del
transetto e della crociera ed erige la prima cappella di sinistra. La
ricostruzione è interrotta antecedentemente al 1684, per essere ripresa, alla
fine del 1694, da Giovanni Antonio De Rossi (che muore nel 1695), il cui
intervento è subordinato alle parti della Chiesa già compiute dal Fontana,
definendo però, in larga misura, il disegno di tutto il restante impianto. I
Padri Camilliani lo indicano, in un documento del 18 giugno 1695 (datato poco
prima della sua morte avvenuta il 9 ottobre di quell’anno), “nostro architetto” ed è, per noi,
curioso apprendere la natura del compenso “erogatogli”, evidentemente durante i
lavori: ” … dato al Sig. Gio. Antonio de
Rossi … scudi 15 … nove fiaschi di vino, una cassetta di pasta di Sicilia, 6
mortadelle et un prosciutto per rigalo e fatiche sue e dei suoi giovani”. Al
De Rossi succede Giulio Carlo Quadri, il quale controfirma numerosissime
fatture tra il 1696 e il 1699 in seguito alle sue incalzanti azioni edili
–nelle quali è presente Francesco Felice Pozzoni, già allievo del De Rossi-,
apportanti qualche lieve modifica al progetto del precedente artista. Nel 1699,
dunque, la nuova Chiesa, nella sua struttura, è pressoché ultimata, mancando le
sovrastrutture marmoree, le dorature e simili, lavori di completamento
proseguiti poco oltre la prima metà del secolo seguente. La consacrazione del
nuovo tempio avviene il 4 maggio 1727, mentre l’intervento edilizio prosegue
estendendosi all’intero circostante isolato, terminando nel 1739 con la
costruzione di un palazzo a uso abitativo, progettato da Francesco Rosa, in Via
del Collegio Capranica.
Un primo riferimento, all’odierno
prospetto, è contenuto in una nota del 16 settembre 1696, ove è riportata una “ricognizione” del Quadri di “diversi disegni”; una serie di ipotesi
avvalorate da testimonianze scritte conducono a ritenere che, Giuseppe Sardi -autodidatta,
condotto alla maturazione artistica dalla sua esperienza come capomastro nei
cantieri-, considerato l’autore della facciata, trovandola ancora allo stato
“grezzo”, l’abbia, nel 1735, completata definitivamente in maniera fondamentale.
Altri nomi, talvolta, sono citati riguardo a questa realizzazione, che appaiono
supposizioni estranee al chiaro tratto stilistico di questa opera,
riconducibile, per l’appunto, al Sardi, specialmente se si confronta con le sue
realizzazioni romane antecedenti a questa: il battistero della Basilica di S.
Lorenzo in Lucina (1721), con la caratteristica cupola che rivela le tematiche
derivanti dal linguaggio borrominiano; il prospetto superiore, della già citata
Chiesa di S. Paolo alla Regola, movimentato dal tenue tono concavo e convesso
(1721).
La facciata della “Maddalena” terminata
quindi dal Sardi è, come abbiamo già osservato, il rilucente esempio del Rococò
in Roma, delineato da un andamento continuo concavo, propagato su due sezioni, impreziosite
ciascuna da due nicchie laterali, da statue e da un complesso di elementi decorativi
di stucco, compresi in un insieme che dissigilla uno schietto patrimonio di
sensitività artistica, in grado di ripartire idoneamente l’organizzazione
spaziale. La linea concava risalta
grazie alla aerea sporgenza, gli strombi incornicianti il portone d’ingresso,
con le loro sagome prospettiche, accentano gli effetti chiaroscurali
dell’organismo diviso in due parti con simile altezza. La prima poggia su un
alto zoccolo ed è diviso da due colonne sistemate ai fianchi del portale,
dialoganti con due nicchie ai cui lati esterni s’innalza una parasta. La seconda,
caratterizzata dalla demarcazione di quattro paraste, che sembrano il corteggio
della grande luce centrale, estende gli altri componenti architettonici in una
superficie molto articolata. Alla sommità il prospetto è concluso da uno
svettante arco (singolare timpano), in cui è innestato il motivo “borrominiano”
del semicatino, sormontato da due segmenti incurvati, in dialettico contrasto
con la diversa forma del bellissimo, ornato, frontone spezzato, dalla cornice
arretrata nella parte centrale; l’attico a lacunari al di sopra delle cornici
orizzontali -spezzate anch’esse, risolutamente aggettanti, chiaroscurate,
flesse ad angolo acuto- “supereleva”
il secondo ordine cogliendo la corsa, dello zoccolo, di quello sottostante; le
paraste pressoché mancanti di rilievo distaccano la fronte dell’edificio; i
nutriti “inserti” ornamentali possiedono una, artificiale, sintassi delle
immagini e dei volumi, tanto piena da imporsi sulla conformazione
architettonica. L’intera superficie, così ricca di “immagini” di diversa natura
artistica, è formata da mattoni a intonaco - escludendo il basamento e il
rocchio inferiore delle colonne in travertino-, mentre per le decorazioni viene
utilizzato lo stucco. Nelle nicchie (evidenziate da timpani decorati a rilievo)
sono “alloggiate”, in basso, le statue di S.
Camillo e di S. Filippo Neri (attribuite a Paolo Campana), in
alto quelle di S. Maria Maddalena e
di S. Marta (di Joseph Canard), tutte
di discreta fattura scultorea.
Nel Settecento scompare, nelle arti
figurative e architettoniche, la figura del genio assoluto e quindi
dell’incomparabilità dello stile, soddisfatto dal gigantismo creato da chi
intuisce la “verità”, l’essenza intrinseca della realtà come unica ma
diversificata sostanza. Questo secolo riverbererà, in tale ambito, la norma
cogente della “buona educazione”, riconosciuta nell’uniformità interposta tra
la delicatezza e la “nuova” sapienza; con quel criterio si “acquista” la
qualità della raffinatezza, in cui l’essenza, il fondamento della cultura
sembra possedervi la propria brillante sede.